lunedì 31 maggio 2021

Un piede in tante scarpe

Le prime scalate le feci con un paio di pesanti scarponi Asolo ai piedi, avevano la classica suola di gomma scolpita Vibram. Inizio estate del 1975, sullo Spigolo Boccalatte alla Torre Germana eravamo un gruppetto di cinque o sei, mentre io mi dovevo concentrare sulla punta degli scarponi appoggiandola bene sugli appigli perché non scivolasse, gli altri che avevano delle scarpette leggere mi sembravano salire con meno fatica e più eleganza. Capii che forse era meglio cambiare le calzature. Approfittando della generosità di un amico che aveva smesso di arrampicare, accettai in dono le sue Galibier “RR” (Royal Robbins) usate poche volte. Si trattava di scarpe in pelle con suola tipo Vibram, leggere e ben calzanti. Esteticamente bruttine per il royal blue della tomaia che strideva con il rosso brillante delle stringhe, sulla roccia consentivano una sensibilità maggiore degli scarponi in particolare nell’uso del bordo interno (edging). Le avevo viste, in alcuni film, ai piedi degli scalatori californiani che salivano tra folate di vento patagonico o sulle lisce pareti di Yosemite. Loro, icone dell’arrampicata di allora, le usavano sul FizRoy o El Capitan, io le avrei usate molto ma molto più modestamente sulle montagne di casa nostra. Le utilizzai effettivamente molto in quell’anno quando le scalate si fecero numericamente maggiori fino a consumarne la suola, benché fosse duretta. Nella nuova stagione del 1977 mi trovai una domenica ad arrampicare sulla Via Balzola alla Torre Castello. I miei due soci sfoggiavano fiammanti scarpette di acceso colore arancio a suola liscia e per tutta la salita non fecero altro che magnificarne la leggerezza e la duttilità. Il lunedì decisi dunque di superare le Colonne d’Ercole del Vibram e mi fiondai in un negozio di articoli sportivi sperando di scoprire un nuovo mondo. Mi procurai un paio di Brixia a suola liscia con tomaia in cotone blu e rinforzi per punta e tallone in similpelle rossa. Ansioso di provarle subito, combinai una scalata infrasettimanale alla Rocca Sbarua dove salii la Gervasutti e la Vena di Quarzo. Le nuove scarpette passarono la prova e mi convinsi di aver fatto una buona scelta. Le Brixia si alternarono con le RR fino a che un bel giorno si sfasciarono sotto un pesante acquazzone che le aveva imbevute, ma soprattutto aveva macerato il sottopiede di cartone pressato. Buttai le Brixia, misi definitivamente in pensione le RR e passai a una scarpa più performante ma non sapevo ancora quanto dolorosa! Acquistai la famosa “EB SuperGratton”. Questa scarpa fu davvero innovativa per la scalata di precisione sui piccoli appigli. Era un’evoluzione della Galibier “PA”, ideata da Pierre Allain, scalatore parigino. Costui negli anni ’50 aveva realizzato un prototipo correntemente chiamato varappe (scalata in francese) adatto ai massi di Fontainebleau. Le EB (Emile Bourdonneau) erano diventate nella seconda metà degli anni ’70 le migliori del mercato. Esse avevano anche un altro “pregio”: facevano un male cane poiché la loro forma non seguiva granché l’anatomia del piede, particolarmente il mio. La tomaia era costituita da due strati di tela inframmezzati da uno di gomma per rendere la struttura più rigida e sostenere la caviglia, con il risultato di non fare traspirare il piede. Alla fine degli anni ’70, Asolo confezionò la “Canyon” con la collaborazione tecnica di Yvon Chouinard. La scarpa ebbe un discreto successo soprattutto per la comodità della calzata. Un mio caro amico che la possedeva ci si trovò benissimo e fece molte vie dichiarandosi sempre soddisfatto, sia in aderenza (friction) sia in incastro (jamming), io perseverai con le dolorose EB. E siamo così ai primi anni ’80, periodo importante per l’evoluzione dell’arrampicata e dei suoi attrezzi tecnici. San Marco, conosciuta casa di scarponi, mise in vendita un modello innovativo realizzato da Patrick Berhault, una scarpetta in scamosciato nero con rinforzi gialli, alta sulla caviglia, molto precisa e calzante come un guanto. Mi comprai le “Berhault”. Erano favolose, morbide, fascianti, mi fecero dimenticare le pene delle EB ma, non potendo ovviamente andare sempre tutto bene, si ruppero molto presto. La pelle con cui erano fatte, forse per il tipo di concia, si tagliò dopo un breve uso e nonostante un tentativo di cucitura del calzolaio di fiducia finì per stracciarsi completamente. Fu una delusione, anche per il costo non indifferente. Uscì in quel periodo la Boreal “Fire”. Non era molto fasciante né comoda ma possedeva una suola detta Goma Cocida con un’aderenza così prodigiosa da strabiliare tutti. Non la provai mai di persona ma i giudizi di tanti erano lusinghieri. A me sembrava una scarpaccia dalla forma indefinita e la mia valutazione forse un po’ tranciante non mi convinse mai a spendere una lira per averla. Per andare in Calanques, presso Marsiglia, mi ero fornito di un paio di La Sportiva “Mariacher” (Heinz Mariacher), scarpette viola e gialle a collo alto. Ricordo bene a Morgiou, splendida insenatura mediterranea, una via che iniziava con un lungo muro verticale a piccole tacche, una sequenza piuttosto intensa, dove la tecnica di piedi poteva fare la differenza. Le Mariacher fecero il loro dovere alla grande. La Sportiva stava iniziando quella produzione di alta qualità che continua tutt’oggi. Vorrei citare una bizzarria di quegli anni come La Sportiva “Ambidestra”, targata Manolo, protagonista insieme a Mariacher dell’evoluzione dell’arrampicata. Nata per ovviare al fatto che la suola si consuma generalmente solo nella parte interna della calzatura mentre quella esterna rimane quasi intatta. Era una scarpa da indossare indifferentemente a destra o a sinistra, peccato che il piede umano abbia una forma che non può, per fortuna, essere modificata da un manufatto. Finirono per essere scarpe poco precise sia con la suola nuova sia consumata e messa a piede invertito, il problema non ebbe dunque soluzione. Nel 1982, immortalate nel film Opera Vertical, fecero la loro comparsa le Dolomite “Edlinger” (Patrick Edlinger), si trattava di scarpe un po’ rigide di colore nero e granata, di ottima precisione in particolare su tacche nette ma la punta un po’ grossa era limitante per l’uso nei buchi, non ideali in aderenza pura. A dire il vero, l’autore poteva anche farne a meno come si può vedere in fotografia. Toccò poi alle Valdor “Paragot” (Robert Paragot), le uniche della storia con la suola bianca, non erano malaccio, erano comode, avevano buona aderenza in placca e abbastanza precise su piccoli appoggi, costituirono una meteora e come tale scomparvero filando velocemente. Il 1988 fu l’anno de La Sportiva “Mega” che naturalmente comprai. Era una scarpetta meno flessibile di altre, dalla buona calzata e con una forma del tallone che non mi consentiva però di avere una buona fasciatura, andavano bene ma io prediligevo una scarpa più morbida e per questo motivo comprai le One Sport azzurre e rosa che avevano... un’intersuola in lamierino! Avevo sbagliato tutto, mi sembrava di scalare con gli scarponi, mi facevano un male bestia e non le trovavo per nulla confortevoli, le regalai. Erano state molto pubblicizzate da immagini dell’avvenente C. Destivelle la quale si faceva ritrarre in pose plastiche penzolando da un tetto o mentre superava in foot-hook pronunciati strapiombi. Devo dire che dalle Mariacher in poi solo il modello La Sportiva “Futura” mi soddisfece in toto prima di arrivare a La Sportiva “Mythos”, all’inizio degli anni ’90. Le Futura (nulla a che vedere con le odierne) avevano una trovata curiosa: la suola era doppia nella parte anteriore in modo che risuolandole non occorresse aprire la scarpa e si potesse sostituire solo la suola superiore la quale doveva, gioco forza, essere sottile consumandosi in verità troppo velocemente. Un modello simile alla Mythos lo fece la spagnola Boreal e lo chiamò “Aces” dal disegno dei quattro assi di carte che recava sul fianco, colori nero e verde brillante. Erano belle scarpe e a detta di chi le ebbe, molto comode e versatili. Le Mythos sono a oggi le mie preferite per le lunghe vie di montagna, comode e precise quando sono nuove, tendono, però, ad allargarsi e allungarsi con successive risuolature. Si tratta di una scarpa polivalente per difficoltà medio - alte su ogni tipo di roccia. Dopo oltre vent’ anni è tuttora in produzione e per l’anniversario ne è stato fatto un modello di diverso colore e più compatto nella struttura, limitato numericamente a 1991 esemplari come l’anno della sua uscita, le mie sono il n° 1618. A cavallo del 2000 provai tre scarpe di ottimo livello: La Sportiva “Miura” e “Katana”, FiveTen “Anazasi” (con l’ottima suola Stealth). Queste ultime mi procurarono qualche doloroso problemino sulle pareti del Verdon una delle prime volte che le usai. Ricordo che salii l’ultima lunghezza di una via con le scarpette sfilate dal tallone usandole a mo’ di ciabatta tra imprecazioni di vario genere e subendo lo smacco di farmi lanciare una corda dall’alto. Avrete certamente capito, se già non lo sapevate, che gli scalatori hanno molteplici motivazioni a essere pignoli nella scelta di una scarpa. A conclusione di tutto si può dire che la tendenza attuale è possedere scarpe diverse e specifiche per il terreno che si affronta: boulder, sintetico, vie lunghe in montagna, vie di più tiri in bassa quota, falesia, calcare, granito ecc. Siamo dunque col racconto ai giorni nostri e mi fermo qui. Lungi da me tentare di fare una storia esauriente delle scarpette da scalata né tantomeno stabilire una scala di valori, ho semplicemente cercato di raccontare, attraverso l’esperienza personale, circa quarant’anni di evoluzione tecnica fatta “con i piedi”.



Il Cieco, lo Zoppo e lo Sbadato

Come una cordata assortita affrontò una giornata di dolomia

Autunno in bassa Val d’Aosta, è una bella giornata di sole e sono con Riccardo e Wolfango. Mentre mi accingo a salire il primo tiro di una via esclamo ”Abbiamo riformato il trio dello Spigolo del Velo” ed Riccardo di rimando ”Il cieco, lo zoppo e lo sbadato”. In una calda giornata estiva dell'anno precedente eravamo partiti sull’ammiraglia di Wolf alla volta di San Martino di Castrozza per una tre giorni alle Pale, obiettivo scalare il famosissimo Spigolo del Velo alla Cima della Madonna e qualcos'altro in zona. Da tempo volevo salire la meraviglia verticale del Velo, conosciuta come una delle più belle scalate dolomitiche, roccia incredibilmente solida e quasi intatta nonostante le migliaia di ripetizioni dal 1920, anno della sua apertura. Ne avevo parlato con Lucia e Giorgio, i pistoiesi con cui avevo condiviso molte scalate, tutte le estati erano in zona col loro gruppo di running ma la cosa non era andata a buon fine. Avevo interpellato allora Riccardo pur sapendo che non lo ispiravano né la roccia né la chiodatura dolomitica (quando c’era). Senza grande entusiasmo si disse disponibile, presumo più per amicizia che per vero interesse. Durante i preparativi mi giunse una telefonata dello stesso che mi comunicava la richiesta di aggregarsi avanzata da Wolf, nonostante fosse un po' claudicante per un recente problema al ginocchio. Erre mi disse che non gli piacevano le cordate a tre, che la via era abbastanza lunga e che avremmo impiegato troppo tempo, ma comunque lasciava a me la patata bollente della decisione. Nonostante Riccardo avesse ragione, mi dispiaceva dire di no a Wolf, sarebbe stato un po’ come imputargli il fatto di rallentare la cordata (non sia mai!) e allora dissi di sì. Ci mettemmo in autostrada e via verso le Pale di San Martino. Giungemmo dunque a Malga Zivertaghe dove si lascia l’auto per salire al rifugio. In previsione di più di una giornata di scalate, mi ero portato due paia di scarpe, un paio più comode per i quattrocento metri dello Spigolo e un altro più strette ma anche più precise per la seconda salita. Preparammo gli zaini, scarpette, imbrago, moschettoni, cordini, borraccia, sapete come va in questi casi, tutto diventa automatico, forse troppo. Ci sistemammo al rifugio e dopo una buona cena andammo a dormire presto. Per l’indomani le previsioni meteo erano buone e lo spirito alto, recita la retorica in questi casi. Al mattino, sotto un cielo terso, ci attendeva un avvicinamento di trenta minuti, il rifugio è infatti quasi piantato nella radice della Cima e raggiungere la partenza dello Spigolo è di fatto un gioco da ragazzi. Con un breve tratto di ferrata si giunge alla grossa clessidra rocciosa indicata come partenza della via, lì ci si imbraga e ci si lega alla corda. Perfetto, vi giunsi per primo, tirai fuori la corda dallo zaino, misi l’imbragatura e cercai le scarpette per calzarle ma mi accorsi che avevo due sinistre. “Porca p... possiedo due paia di Mythos e forse perché mal riposte nell’armadio ho preso due scarpe uguali” commentai borbottando. Affranto, appoggiai la testa alla roccia, avevo fatto quattrocentocinquanta chilometri per quella via e adesso ero lì sconfortato e arrabbiato. Intanto mi raggiunse Riccardo che vedendomi in quello stato ”Stai male?” mi chiese “No, ho due scarpe sinistre, sono proprio uno scemo, vabbè andate su voi io mi farò un giro”. A questo punto trionfò un senso di amicizia solidale, sapendo quanto ci tenessi a fare la via, mi fu proposto di scendere alla macchina, di prendere le altre scarpe (ero certo che fossero una destra e una sinistra) e di risalire al rifugio, la via l’avremmo fatta il giorno seguente. Ed eccoci al giorno seguente, all’attacco infilai una Mythos nel piede sinistro (non si rinuncia facilmente alla comodità) e una Katana nel destro sperando che non mi facesse male poiché un po’ stretta. Il cielo non era più sgombro come la mattinata precedente, striature grigie si allungavano sull’orizzonte, l’azzurro era un po’ slavato, “Sperùma bin” dissi attaccando il pilastrino iniziale. I tiri scorrevano, la roccia era in effetti molto bella, la chiodatura scarsa ma le difficoltà abbordabili permettevano di salire con discreta sicurezza e così tiro dopo tiro ci innalzammo, io continuai a condurre lodando la qualità della roccia, l’eleganza della scalata ma lamentandomi dei chiodi arrugginiti e delle soste mal sicure secondo i miei standard che non sono certo quelli dolomitici. Eravamo già molto in alto e la progressione era regolare ma non delle più veloci, la temperatura era fresca tanto da richiedere maglione e kway per godere di un certo confort. A un certo punto Wolf espresse il desiderio di passare a condurre qualche lunghezza ma Riccardo fu perentorio: “No no, continua lui che ormai ha preso il giro, non rallentiamo” il silenzio che seguì fu molto chiaro nel significato, continuai io come capocordata. A due tiri dalla vetta iniziarono a cadere gocce di pioggia miste a palline di ghiaccio ma sulla piatta terrazza, dove hanno fine le difficoltà, comparve per un attimo un timido sole. In cima dopo la “doverosa” stretta di mano, ci avviammo per una esigua cresta a prendere le calate in doppia sul versante opposto. Il piccolo sole cedette il posto alla nebbia che in breve si impossessò di tutta la montagna impedendo la visuale oltre i tre, quattro metri e fu la nebbia stessa la protagonista del prosieguo. Le calate avvenivano lungo il camino Winkler, una spaccatura di circa cinquanta metri salita nel 1886 dallo straordinario scalatore tedesco senza alcuna protezione, incastrandosi dentro e con gli scarponi chiodati. Oggi è gradata di quarto, figurarsi alla fine dell’ottocento che cosa significasse. Ma torniamo alla nostra discesa, due doppie ci depositarono su una cengia di sfasciumi, a tratti scendeva una pioggerellina fine, bisognava porre estrema attenzione nel muoversi su quel terreno infido e per giunta immerso nella nebbia. Giungemmo così alla doppia che porta al colletto da cui s’imbocca il canalone finale per raggiungere i ghiaioni basali e di lì il rifugio. Scese prima Riccardo, che in quella giornata era un po’ innervosito da un problema a un occhio e rispondeva seccamente alle domande; incolpevolmente fece una doppia obliqua per raggiungere direttamente il colletto ma capì che poi sarebbe stato difficile recuperare le corde per cui consigliò di fare una doppia verticale e poi risalire al luogo dove era arrivato lui con le corde. Fu dunque il turno di Wolf che lamentandosi per il fatto che in basso c’era della neve residua, iniziò anche lui a scendere con una doppia obliqua facendo imbufalire non poco Riccardo e venendosi a trovare in una situazione complicata con le corde che tiravano e impedivano lo scorrimento del discensore “ Ma cosa c... fai? ” lo apostrofò Riccardo “Eh…non so” “ Ma come non sai, come sei messo?” “Eh come sono messo…né carne e né pesce”. “ Nè carne né pesce? Ma cosa vuol dire? Wolfango non ti sopporto ” urlò Riccardo “Sei pedante e noioso oltre che testardo”. Incastrato sotto una sporgenza rocciosa per ripararmi dalla pioggia, legato ai chiodi della sosta, dall'alto assistei allo spassoso siparietto e non seppi proprio trattenere una risata sincera. La situazione era assurda e divertente al tempo stesso. Alla fine Wolf in qualche modo raggiunse la postazione di Riccardo il quale sembrava fumare dall’incazzatura. Dalla nicchia in cui  ero rintanato evitai di parlare e scesi in doppia finendo con i piedi nel nevaio per poi camminare fino ai due litiganti che nel frattempo continuavano la discussione. “Va bene Wolfango scusami” “ Non ti preoccupare, siamo amici da lungo tempo e poi ci sono abituato fin da bambino quando mia madre mi sgridava, facevo finta di niente” “ Ma cosa c’entra tua madre adesso? Vuoi dire che fai finta di niente quando ti dico qualcosa? Vabbè lasciamo perdere e leviamoci di qua”. Il terreno era sempre piuttosto insidioso e la nebbia non si diradava, procedevo in discesa cercando gli ancoraggi delle doppie e di tanto in tanto udivo un richiamo dei soci che nonostante avessi una giacca gialla non mi vedevano. Il problema di Riccardo all’occhio si acuiva con la poca visibilità “Renato dove sei passato?” “ Sono sceso dritto ma non saprei come spiegarti” “ Ah beh, grazie dell’aiuto” “ No, non volevo dire…” decisi di lasciar perdere per non aumentare il tasso di nervosismo del gruppo. Dopo diverse doppie e tratti percorsi a piedi, numerosi chiodi e cordini ci indicarono un grosso ancoraggio sul bordo di un salto verticale e presumibilmente piuttosto alto, guardando in basso si vedeva infatti solo uno strato lattiginoso qualche metro sotto noi. Riccardo scese usando una sola corda, scomparendo nella nebbia per trenta metri “Non vedo la sosta e sono in piena parete verticale, adesso mi sistemo sopra uno spuntone ma non sono messo bene”. La situazione era un po’ complessa, non aveva visto l’ancoraggio successivo o questo non era a trenta metri? L’unica soluzione logica era legare le due corde e scendere per sessanta metri per avere a disposizione una calata lunga, una sosta da qualche parte l’avremmo ben trovata. Il difficile fu a quel punto vincere la caparbietà di Wolf assolutamente convinto com’era che Riccardo fosse in errore dato che tutte le calate precedenti erano state di trenta metri “Scendi da trenta vedrai che la trovi, è Riccardo che l’ha ciccata” mi disse “Ma se scendiamo da sessanta in ogni caso o la troviamo a trenta o tutt'al più scendo finchè ho corda e una sosta ci dovrà pur essere, con la calata lunga siamo sicuri” replicai. A me il ragionamento sembrava filasse ma pareva non convincere completamente Wolf che solo dopo un lungo e riflessivo silenzio cedette “Va bene, lega le due corde”. Cominciai a scendere e raggiunsi Riccardo che con un sorriso stiracchiato mi guardò standosene appollaiato su una specie di prua che fuoriusciva dalla parete, era al sicuro ma comodo non di certo. Decisi che non era dunque il caso di condividere quel trespolo, gli passai le corde perché le tenesse vicine per poi usarle quando fosse stato il suo turno e continuai a calare nella nebbia più fitta. A un tratto sentii però qualcosa di strano sotto la scarponcino destro, non vi badai più di tanto filando lungo le corde verso il basso. A oltre cinquanta metri di discesa atterrai su una terrazza abbastanza ampia, scrutai in giro ma non vidi chiodi o cordini, nulla, la nebbia continuava a essere spessa, tutt'intorno un velo grigiastro mi avvolgeva, improvvisamente ci fu uno squarcio brevissimo, “Porco boia” esclamai, per un attimo vidi che i ghiaioni erano solo cinque metri sotto di me, eravamo arrivati, intravidi nella pietraia il solco del sentiero prima che tutto si richiudesse. In breve fui raggiunto e ci incamminammo. Eravamo stati in ballo per circa undici ore, eravamo stati lenti ma in fondo non ci importava, lo spigolo era fatto. Mentre camminavo, mi accorsi che una scarpa aveva la suola scollata, ecco cos’era quella sensazione strana, continuai caracollando sulle ghiaie, “Domani per scendere ti presto il nastro delle dita, potrai avvolgere la scarpa, ma non consumarne troppo” sentenziò Riccardo in tono scherzoso. La signora del rifugio ci disse che era un po’ in ansia per noi sapendo che la discesa era complessa con la nebbia soprattutto per chi non la conosce, “In qualche modo ce la caviamo sempre” esclamò qualcuno di noi facendo emergere dalla stanchezza fisica e mentale un po’ di gagliardo spirito di tempi andati. Poi furono una minestra calda, una fetta di torta e brindisi con una bottiglia di vino. Attraverso la finestra si vedevano le luci nella valle, il buio abbracciò le montagne, era ora di andare. Buonanotte.


 

 

Ritorno al Verdon

Per il ponte di Giugno le previsioni erano ottime, non restava che fare lo zaino e partire. Ero finalmente riuscito a combinare per il Verdon. Ero contento, mancavo dalla zona, per arrampicarci, da quasi dieci anni. Vi ero stato da non molto ma solo per fare un giro a piedi sul Sentiero Martel e per me non è proprio la stessa cosa sebbene le “gorges” sappiano offrire spettacolo per qualsiasi attività vi si faccia, anche solo guardare questa meraviglia geologica. La prima cosa che colpisce quando si scende in Provenza è il colore della luce, proprio quello che ci stava accompagnando sulle tortuose strade, contornate da coltivazioni di lavanda, che portano a Moustiers-Sainte-Marie. Un bel borgo di circa 600 abitanti, arroccato sulle pendici di alte torri calcaree che è così descritto in un sito web turistico: “Village cramponné au pied de falaise tout en haut du Lac de Sainte Croix, à l’entrée du grand canyon du Verdon”. Arrivati dunque a La Palud, solo 300 abitanti, ma vero cuore pulsante del Verdon, ci installammo nella gîte L’Escalès gestita da Matia, moglie di Patrick Edlinger morto nel 2012 in un banale incidente domestico. Avevamo in programma alcune vie consigliate da guide cartacee e vari siti internet. Il primo giorno si è sempre indecisi se fare qualche tiretto di assaggio o calarsi in doppia e darsi da fare su quel calcare così compatto, definito da M. Bernardi nella sua guida del 1987, il più bello del mondo. Eh già, per arrampicare in questo luogo, occorre spesso fare il contrario di quanto si fa in genere. Prima si scende e poi si risale, facendo bene attenzione a essere in grado di scalare l’itinerario prescelto poiché le vie di fuga non sempre esistono e pur essendo l’ambiente fantastico, non è certo confortevole né onorevole passare una notte là sotto aspettando i soccorsi. A volte la discesa è fino in fondo al canyon, in prossimità del Sentiero Martel, a volte le doppie finiscono su una terrazza alberata, una stretta cengia o in piena parete su due ancoraggi uniti da una catena (ad esempio Rêve de fer o L’ange en décomposition). Le terrazze portano nomi come Jardin des Ecureuils, Jardin de la Marcellin, Jardin des suisses (i fratelli Remy), Jardin de bananes e visti dal basso appaiono come grovigli di alberi avvinghiati alle pareti. La mia esperienza in quest’angolo di Francia, si limita a una quindicina di vie per lo più le grandi “classiche”, ma per chi è in grado di scalare a livelli molto alti, le forti difficoltà unite alla grande esposizione nel vuoto formano un cocktail micidiale. A ogni buon conto certe vertiginose calate in corda doppia (come quelle di Luna Bong, che fecero dire a Marco Troussier, quando le fece su chiodi e cordini: “J'étais vert“) lasciano sempre un qualcosa dentro che non svanisce subito anche con la decennale abitudine a certe manovre. Un capitolo a parte lo valgono i nomi strampalati delle vie. Oggi siamo piuttosto abituati a bizzarrie ma fino a tutti gli anni ‘70 si era legati alla compostezza di: diedro grigio, fessura gialla, diedro rosso, placche striate, strapiombo nero oppure al nome degli apritori o quello di un amico, magari scomparso. In Verdon comparvero nomi veramente divertenti che possiamo per gioco catalogare in: parole composte o neologismi, Troglobule (trop+globules), Dingomaniaque, Durendalle e Footcroute (football+chocroute, dedicata agli alsaziani), Caca Boudin, Spitofage Pervers; fanta-horror-thriller, Golem, Cthuluh, Necronomicon, Massacre à la tronçonneuse, Necropolis, Le toboggan de la mort; a rima baciata, La vache qui tache, Manu ribdu, Ticket pour un tacquet, La dalle du clou qui rend fou; botta e risposta, La Demande, L’Offre, Toujoursjamè, Toujourplusprés, Polpot, Polpet, Mort à Venice, Mort subite, Miss canyon, Miss tourbillon; deciso e perentorio, Take or leave it, Pas de panique, Alerte au gaz, Surveiller et punir, Sérieux s’abstenir; paradisiaci, La douce sublimation, Patience dans l’azur, Troisiéme ciel, Èperon sublime; acronimi, ORNI (Object-Rampant-Non-Identifié), TNT; nomi di animali, Ula (una cagnetta tedesca), Pichenibule (una pecora provenzale), Arabe dément (un gatto). Giacchè, in un celebre articolo su una rivista specializzata, gli scalatori che si cimentarono per primi su quelle vertiginose rocce furono definiti “un groupe des fous mèridionaux”, non potevano allora mancare i nomi dedicati alla follia come Au delà du délire, Delirium très mince, Le fou d’artifice, Le moroir du fou. I nomi hanno quasi tutti un doppio senso e spesso si riferiscono a situazioni createsi durante l’apertura. Mi sento di consigliare la lettura di Quei pazzi del Verdon di B. Vaucher, racconto di una “banda d’illuminati”, un gruppo di amici con tutte le loro avventure verticali. Un libro che oltre a contenere alcuni capitoli esilaranti, è importante per capire un’epopea che riguardò tutta l’Europa posando le vere e proprie basi dell’arrampicata sportiva. Tornando alla nostra permanenza, decidemmo di “buttarci” su Saut d’homme sperando di non essere troppo coerenti con il nome. Questa via consta di quattro tiri per una lunghezza totale di circa 150 metri e segue la linea di un grande diedro-fessura in roccia gialla e grigia. Si tratta di una scalata molto ripetuta e questo poteva presagire la presenza di roccia lucidata dai numerosi passaggi, ma in ogni caso avevamo preso la decisione. La prima calata fu senza difficoltà, ma la seconda naturalmente ci offrì un bell’incastro di nodo per la delizia di dover risalire la corda con manovre varie e poco piacevoli. Fortuna volle che una cordata inglese che scendeva dopo di noi ci facesse scorrere il nodo oltre il punto d’incastro e fummo salvi potendo recuperare le corde e arrivare alla piccola terrazza alberata, sospesa sulla parete, da dove ebbe inizio la scalata. Fu subito fessura da tirare con forza, dülfer e incastro, ehmmm…la chiodatura? Pareva buona e i punti di protezione non troppo distanziati, sempre comunque “stile Verdon”. Intanto un grosso grifone ci teneva compagnia volando sopra di noi e sfruttava silenziosamente le correnti ascensionali per controllare il canyon alla ricerca di cibo. Arrivai dunque al terzo tiro che dalla sosta appariva come una lunga e giallastra fessura, “Mi sembra un affare rognoso” dichiarai sorridendo e cercando di prenderla allegramente, m’impegnai deciso utilizzando anche il famoso “renfougne”, incastro di una parte del corpo che striscia un po’ dentro la spaccatura mentre l’altra parte sta fuori in cerca di appigli buoni per piedi e mani. Dopo un discreto sforzo venni a capo del tiro e mi ritrovai, prima della sosta, ad aggirare un robusto ginepro fenicio abbarbicato nella fessura, uno dei tanti di queste pareti, il più famoso dei quali è “l’arbre de Coriolis” sulla via Mangoustine, addirittura millenario. Alla fine della scalata, immerso nei bossi del pianoro sommitale, liberatomi di scarpette imbrago e corda, commentai che era stato proprio bello lasciarsi attrarre dall’ambiente verticale del canyon. I giorni successivi ci regalarono panorami da cartolina sul Lago di Sainte Croix, vedute mozzafiato delle gole mentre percorrevamo brevi tragitti in auto per raggiungere i punti di partenza. Una panoramica strada ci condusse al cosiddetto Chalet de la Maline. Anche se l’eleganza della parola francese evoca per noi costruzioni montane di pregio, si tratta in realtà di un rifugio del CAF, da cui si può scendere a piedi nel canyon. Il nostro obiettivo era scalare la via Free Tibet. Seguendo la descrizione scaricata in rete, raggiungemmo l’attacco. Un tiro obliquo ci portò alla prima sosta, la gradazione ci parve severa. Il secondo tiro coincideva solo parzialmente con quanto riportato sul foglio, mancava un breve traverso verso destra e quindi una sosta su un grande ginepro secco che non poteva passare inosservato, pensammo a una inesattezza. Il terzo tiro era un traverso a destra e combaciava con la relazione, ma le difficoltà sembravano essere più alte di quelle dichiarate, pensammo di essere scarsi. Una cordata che incautamente ci seguiva fidandosi forse della nostra convinzione, abbandonò e scese in doppia, pensammo che stesse forse facendo la cosa giusta. Il quarto tiro partiva obliquo a sinistra mentre la relazione parlava di andare a destra, commentammo come certuni non conoscano la differenza tra destra e sinistra, passi impegnativi mi portarono alla sosta. Il quinto tiro saliva su per un pilastro “supergaz” di cui non vi era menzione, cominciammo ad avere dei dubbi. Fummo infine su una grande cengia al termine della via. Il rientro era indicato da ometti in pietra verso sinistra, la relazione parlava di andare a destra, smettemmo di farci domande e ci incamminammo verso la Maline. Nessuno degli scalatori che incontrammo nella serata fu in grado di delucidarci e solo al nostro ritorno a casa, internet chiarì che avevamo fatto un’altra via, aperta da poco e più dura del nostro obiettivo iniziale. In ogni caso ce l’eravamo cavata con un impegno maggiore, con qualche tratto al limite del volo, un po’ di timore ma senza pericoli. Così passarono sei giorni scalando, chiacchierando davanti a una birra a Lou Cafetie, ascoltando le spassose litanie del proprietario di Le Tilleul-crêperie tibétaine, mangiando le insalatone nel giardino di Joe Le Snacky, respirando il profumo dei sacchettini di erbe provenzali e portandoci a casa, insieme alle belle sensazioni, i barattoli di miele alla lavanda.



Trapana Jones e la punta maledetta

Era l’inizio di settembre del 2006, io ero appena tornato dall’oriente e Giulio dall’Africa. Entrambi eravamo intenzionati ad aprire una via, tanto per cominciare, sulla Parete delle Torri alias Paretone alias ancora Cresta delle Torri. Ne avevamo parlato fin da quando, impegnati sulla sud-est della Rocca di Lities, dalla sua cima, seduti su un grosso masso, guardavamo la parete non lontana e così incombente a chiusura del vallone ad anfiteatro di Lities. Era dunque giunto il momento di risalire il canalone ingombro da grandi massi, giungere alla forcella e proseguire sul lato nord della cresta delle torri per arrivare in cima alla parete, che possedeva una sola via sul suo lato sinistro. Di mattina presto, dunque, feci lo zaino un po’ di corsa cercando di non dimenticare nulla e dopo un rapido inventario, decisi che avevo preso tutto. Attesi, alla solita rotonda di Venaria, l’arrivo della ecologica Panda di Giulio e dopo aver effettuato il trasbordo sulla inquinante Punto diesel, guidai fino all’abitato di Lities. Gli zaini furono riempiti del materiale equamente diviso, corde, trapano, placchette, cordini, moschettoni, batteria( del suddetto trapano) e dopo il pieno d’acqua alle borracce eravamo pronti per l’ora e mezza circa di salita sotto un peso di una decina di chili. Il cielo era di quelli alla Magritte, un bell’azzurro con molte nuvolette sfilacciate, in alto sul Bellavarda, una nuvolaglia nera incombeva. Ci accolse la bella pietraia calda che funge da base alla Parete delle Torri e poco prima di raggiungere quest’ultima deviammo a sinistra per infilare il largo canalone che porta alla breccia. Salendo, ci scambiammo impressioni di viaggio, idee nuove, progetti futuri, insomma …un sacco di parole. Sostammo brevemente per osservare un vecchio enorme albero collassato dal bosco sulla pietraia, si era spezzato alla base ed aveva un diametro di almeno due metri. Forse era stato colpito da un fulmine o, indebolito da qualche parassita, era crollato spezzandosi alla base. Ora i suoi rami erano sparsi sulle pietre ed erano terreno di colonia per funghi, muschi e miriadi di formiche, il grosso tronco, completamente scavato, stava per disgregarsi. Una ben misera fine per chi sicuramente, fino a non molto tempo prima, aveva torreggiato sugli altri asfittici alberelli dei dintorni. Proseguimmo poi in silenzio, ciascuno immerso nelle sue cose, fino a che le nostre orecchie percepirono un rumore come di sassi che rotolano ed i nostri occhi allora videro uno splendido camoscio che in modo altero ci osservava dall’alto, mentre scendeva a saltelli. Ci fermammo a guardarlo incuriositi ed ammirati, si fermò a guardarci curioso ed apparentemente non spaventato, annusò l’aria, girò il muso e sparì sull’altro versante lasciandoci vedere il sottocoda bianco. In una quarantina di minuti eravamo giunti alla breccia, in altrettanto tempo saremmo giunti in cima. La giornata, abbastanza soleggiata, non fu troppo pesante per il caldo, la solita brezza  che spira a Lities nelle giornate estive e che scompare in inverno, ci rinfrescò notevolmente, tanto che il peso dello zaino non si fece sentire più di tanto. Dei grandi faggi orlavano la cresta ed alla loro ombra erano nettamente visibili i giacigli dei camosci e le tracce del loro passaggio. Dalla cima il panorama sulla valle apparve interamente visibile quando ci portammo sul bordo della parete, sotto di noi un grande salto che non potevamo vedere ma che immaginavamo per averlo osservato parecchie volte. Ci imbragammo, dunque, tirai fuori la batteria e Giulio fece scivolare fuori dallo zaino il trapano e lo collegò, preparammo i fix e le placchette, cordini, moschettoni. “passami la punta del trapano” esordì Giulio “ preparo l’ancoraggio”, “ la punta.. si, la cerco” sussurrai “ devo averla messa in fondo perché non la vedo, era qua, dove sarà finita ? L’ho dimenticata in macchina” continuai sconcertato “ azz… ci siamo sgobbati tutto questo tragitto per nulla…” ”mi dispiace, non ci resta che scendere…” proseguii mogio. A quel punto presero il sopravvento il senso pratico e la voglia di fare di Giulio “ allora, è ancora abbastanza presto, sono le 10 e mezza, scendiamo alla macchina, mangiamo qualcosa, recuperiamo le punte e saliamo in cima alla Rocca per vedere se possiamo fare qualcosa sulla parete sud, in questa stagione le giornate sono ancora lunghe, abbiamo tante ore di luce” Quando qualcuno ti fa un programma così dettagliato nel giro di alcuni secondi senza pensarci sopra, non puoi che annuire e se ti affiora un dubbio, lo cancelli con un batter di ciglio. Qualcuno, ora, potrebbe pensare che consumammo un breve spuntino, che so, una barretta, una brioscina, no, no, ci cucinammo, col fornello portatile, gli agnolotti! Quel qualcuno di cui sopra, potrebbe ora pensare che fu pesante ripartire con lo zaino e camminare in salita ripida per circa 30 minuti, si, si, lo fu. La digestione accelerata dal moto, non fu poi così problematica…solo un po’. Dalla cengia superiore della Rocca, ci godemmo, seduti sulla pietra, il panorama foschioso della valle, una striscia rosa stinto divideva la cima dei monti dal resto del cielo azzurro chiaro ma intanto la nuvolaglia nera, rimasta parcheggiata sopra il Bellavarda per alcune ore, si spostò verso e sopra di noi , piuttosto velocemente. Decidemmo di calarci lungo la parete, prima che il tempo cambiasse in peggio e sperammo anche che la nuvolosa nera fosse innocua. Ci trovammo sopra un bel muro di roccia scura “ bisognerà pulire molto !” “ andiamo verso destra la roccia mi sembra bella, c’è un bel diedro” Il trapano fece il suo dovere, posammo gli ancoraggi e proseguimmo le calate in doppia. Quando mettemmo i piedi sulla grande cengia, cominciò a scendere una pioggerellina fine, fine. L’atmosfera cambiò improvvisamente, l’aria si rinfrescò, i rumori si ovattarono, il leggero vapore levatosi dalla pietra calda ci avvolse e ci penetrò nelle narici. Mi accovacciai sulla cengia e guardai lontano, in silenzio. Una grande calma si impossessò di me, osservai la pioggia al riparo di un minuscolo tetto, era una grande e bella sensazione. Con due calate fummo nel bosco e sul sentiero di ritorno. Quel giorno nacque “il mago di Oz”.



 

Il mio caro pollice

La cosa più eclatante che mi sia successa di questi tempi è pizzicarmi il pollice in un palo di legno…ma andiamo per ordine. La  mia frequentazione di monti e valli mi porta sovente a Lities dove il mio amico Mauro vive e lavora, poiché io scalo non lontano da casa sua, sovente nel passare a trovarlo  gli do una mano a fare lavori di pura e rude manovalanza, come si addice a uomini veri e grezzi come noi. Avendo finito, dunque, la mia occupazione col verticale, sceso al piano, vidi Mauro intento a costruire una palizzata-recinto per gli animali.”dai, che ti do una mano!” sbottai, e sfilatomi lo zaino, tra un urlo dell’ocone ed un abbaiare di cani mi approntai “all’arduo cimento”. L’organizzazione del lavoro era dunque la seguente: caricare i paletti sulla jeep, trasportarli in basso nel luogo prescelto, fare le buche in cui infiggere i suddetti paletti, inchiodare la rete termosaldata, fine dell’opera. Tutta la prima fase si svolse senza intoppi o problemi e dunque arrivammo al fatidico momento dell’infissione. “Tu tieni il palo in posizione verticale, io batto con la mazza e poi finiamo di riempire il buco con sassi e terra” ipse dixit. La maestria con la quale Mauro utilizza l’attrezzo non ha uguali in tutte e tre le valli di Lanzo, il suo possente corpo di ex rugbista si espresse appieno nella costruzione del recinto. Un turbinio di mazzate investì il palo, ed io sempre più pavido vedevo la mazza volteggiare sopra la mia testa “vai tranquillo o prendo il palo o te, di qui non si scappa”. Indossavo un paio di guanti da lavoro in pelle per non infilarmi scaglie di legno nei polpastrelli, ma ahimè uno di essi aveva un vistoso strappo sul pollice destro, parte interna; mentre la violenza si scatenava con furia da uragano su di un palo, tutto ad un tratto esso ebbe un crollo strutturale, o meglio si fessurò in senso verticale e per l’elasticità delle fibre lignee si richiuse immediatamente pizzicandomi l’unica parte scoperta dal guanto…il pollice. “cazzo!” “fammi vedere, ci’hai le mani di merda di un professore…"Che la ministra Moratti abbia ragione? Mi balenò nella mente che forse stava preparando una sorta di “rivoluzione culturale cinese 2.0, mandando i prof inutili a rieducarsi nei campi! In questo caso io il luogo ce l’ho già, e va pure bene, soleggiato, panoramico, aria buona, cibo naturale nonché biologico, roccia a non finire. Un bel giro di nastro intorno al dito, un caffè, un saluto fraterno. Ci vuole molto per essere felici?



 

 

Scalata d'autunno

L’autunno è probabilmente la stagione migliore per chi vuole frequentare la montagna di quota medio bassa, le giornate sono ancora lunghe, la luce ha un bel colore caldo, i boschi assumono quella colorazione mista che compone un vero e proprio collage di verdi, rossi e gialli. Per arrampicare è sicuramente, a mio modo di vedere, il periodo più bello, l’aria è calma, le temperature non sono ancora troppo basse come l’inverno che seguirà  e non più calde né troppo umide come in estate. Parliamo naturalmente di condizioni standard che non sempre sono tali poiché conosciamo bene le bizzarrie del clima di questi tempi. “Non ci sono più le mezze stagioni” “il tempo non è più quello di una volta” “quando ero giovane…” queste e altre banalità le sentiamo in ogni luogo, al bar come al mercato, sul posto di lavoro come sul tram e nei programmi televisivi. Bisogna però dire che un fondo di verità esiste, il clima è evidentemente cambiato e con certezza a causa dell’uomo il quale sta riducendo a pochi decenni mutamenti che forse la natura potrebbe realizzare in 1000 o 2000 anni Noi stiamo purtroppo spingendo sull’acceleratore di questi cambiamenti e corriamo a tutta velocità verso un punto di non ritorno. Non mi voglio però ora addentrare in questi discorsi poiché molto complessi e poco inerenti a quanto voglio scrivere in quest’articolo che potrete leggere se la bontà dell’editore mi sarà stata favorevole. Perdonatemi dunque un po’ retorica sulle stagioni e particolarmente sull’autunno, direi dunque di passare all’argomento vero e proprio. Avevo combinato, giacché la stagione si presentava così bene, di fare una scalata con Giacomo e Andrea fissando loro un appuntamento a un’ora non troppo mattutina, al Galup di Pinerolo per un buon caffè con brioche. Le idee erano tante, Monte Bracco, Rocca Sbarua, uno dei numerosi luoghi della val Chisone come il Bourcet o il Grandubbione. Dopo un po’ di scambi di opinioni, senza particolare fantasia la scelta era caduta sulla Sbarua, i motivi erano la vicinanza e senza dubbio la bellezza del posto. Salendo sulla strada che porta prima a Talucco e poi al Rifugio Melano-Casa Canada avevamo già notato un discreto traffico, “sono fungaioli” aveva sentenziato Giacomo. Giunti al parcheggio avevamo realizzato che centinaia di scalatori dovessero essere lì, macchine posteggiate in ogni dove, di traverso, in bilico, alcune col fatidico sasso contro la ruota (?!). “Parbleau” fece Giacomo (le esclamazioni in francese sono il suo forte) “forse è meglio che giriamo i buoi” disse con minore eleganza rispetto all’esordio “propongo di salire al colle del Crò e poi decidere” Ci eravamo così trovati dopo pochi minuti in un altro parcheggio altrettanto pieno di auto, quad, moto e bici, la terza battuta era toccata a me ed era stata dialettale “am bele si a regalo ‘l sucher” reminiscenza di una vecchia barzelletta. Dopo aver escluso la Roca d’la sënner/Falesia del Crò, avevamo optato per il Torrione del Talucco contando sul fatto che non ci fosse affollamento poiché gli scalatori avrebbero dovuto essere tutti a Rocca Sbarua formando curiosi grappoli umani sulle soste dello Sperone Rivero o del Cinquetti. Ci incamminammo dunque sulla larga carrareccia che da dietro la Locanda del Crò sale in direzione del Colle Sperina e giungemmo, dopo aver passato la sbarra di ferro, in circa quindici minuti a una deviazione a destra, segnalata da piccole scritte su alberi, da un cartello e da segni rossi. Scesi velocemente nel bosco fino alla presa dell’acqua superammo alcuni alberi caduti e dopo una deviazione a sinistra in un boschetto di pini giungemmo alla pietraia che, discesa alla bell’e meglio, ci permise di raggiungere la Cresta 7 Confini su cui una cordata si era appena impegnata. Proseguendo oltre per una cinquantina di metri ci trovammo alla base del Torrione del Talucco. Queste due strutture rocciose insieme alle Torri Livia, Carla, Jennifer, Giuditta e Grigia sono corollario della ben più nota Rocca Sbarua, hanno però la caratteristica di essere meno frequentate per la loro posizione un po’ defilata e per la mancanza di un rifugio in prossimità. Sebbene abbiano la stessa fantastica roccia, un granito solidissimo e rugoso, per lunghi anni sono state abbandonate dagli scalatori. Quando nel 2007 decisi di aprirvi un paio di vie, il Torrione aveva soltanto una vecchia via degli anni ’70 con pochissime ripetizioni e di difficile reperimento e un’altra sulla faccia sud abbastanza attrezzata ma un po’ dimenticata. Con Giacomo e Andrea decidemmo di attaccare lo spigolo di sinistra per la via “Un sorriso per Susi”. La partenza era in un diedro piuttosto articolato che portava allo spigolo vero e proprio, occorreva poi salire su piccole prese fino a giungere alla parte superiore dello spigolo stesso che andava scalato con un po’ di forza per buone fessure e lame, l’uscita era su un comodo terrazzo. Il secondo tiro toccò a Giacomo il quale salì dicendo che sperava che io avessi “chiodato corto” come diciamo in gergo. Lo tranquillizzai, anche se non ne aveva certo bisogno, la sua frase era puramente rituale, superò molto bene la placca quasi verticale con una scalata su minimi appigli e piccole svasature. “Il terzo tiro è il più estetico” dissi ad Andrea mentre si accingeva a partire “ e poi dimmi che non sono un amico, ti ho lasciato la parte più bella” “ sì ma è anche la più dura” rispose ridendo. Salimmo nel diedro chiuso da un piccolo tetto e girato lo spigolo attaccammo la larga fessura che porta al muretto finale da scalare con un po’ di destrezza e resistenza su liste orizzontali. Sulla piatta cima della torre rocciosa ci accovacciammo sotto il sole. La giornata era radiosa, la visione della valle era filtrata da una lieve bruma che sottolineava le linee dei crinali a separare tra di loro le varie valli fino al Monviso troneggiante sullo sfondo, non per nulla è anche chiamato il re di pietra. Decidemmo di continuare a scalare sotto il tepore autunnale e proseguimmo sulla parte alta della Cresta 7 confini che porta in vetta al Monte 7 confini, anche se di vetta nel senso più stretto del termine non si può parlare, si tratta più che altro di un punto topografico, dove convergerebbero per l’appunto i termini di sette comuni. Questa cresta è formata da diversi torrioni e presumibilmente negli anni ’60 era stata salita con un andamento poco chiaro e di cui non vi era una relazione ben precisa. Due nostri amici, Jean e Fede, avevano deciso di farvi una via e ne era venuto fuori un percorso diretto, molto vario, su roccia ottima e attrezzato secondo l’ottica dell’arrampicata sportiva che caratterizza tutta quest’area. Torniamo dunque a noi che dalla sommità del Talucco ci spostammo brevemente a piedi nel bosco per attaccare la Cresta iniziando la scalata di un pilastro verticale e di un successivo spigolo molto interessante. Giacomo iniziò a lamentarsi di una scarpetta che per il troppo uso aveva un buco sulla punta e dichiarò che di lì in avanti avrebbe fatto “il cliente”, avrebbe quindi scalato solo da secondo di cordata come se si accompagnasse a una guida, “meglio così” disse Andrea ”da primo sei lento” e gli rivolse un ghigno canzonatorio. Ad un certo punto della via ci si trova su un bellissimo muro verticale solcato da un’esile fessura dove l’incastro delle mani non è semplice e occorre anche una discreta tecnica di piedi per sfruttare ai lati della fessura stessa appigli scarsi e arrotondati, questo è il settore chiave della salita. Riuscii abbastanza bene in questo tratto e mi portai sulla grande terrazza occupata da un enorme masso appiattito da cui il panorama sulla valle era veramente ampio e luminoso. Da questa terrazza rocciosa alcune cenge mettono in comunicazione la cresta con il bosco sottostante e fu lì che Giacomo propose di uscire a cercare funghi, ma noi non accettammo “l’onta” di fuggire dalla via. Per descrivere la parte finale vorrei utilizzare alcune righe tratte dalla guida cartacea di G.P.Motti ed. C.A.I. 1969 (un oggetto ormai solo da collezione) “soprattutto l’ultimo salto prima della vetta del Monte 7 Confini, se superato direttamente, offre un’arrampicata veramente entusiasmante e divertente”. Non potevamo dunque deviare nel bosco sottostando alla richiesta di Giacomo il quale dopo vari sfottò ammise che la sua era in fondo solo una battuta di spirito, per nessun motivo avrebbe voluto interrompere la via ma dopo questa sua affermazione gli sfottò aumentarono. Ormai il tramonto incombeva. Potevamo fare altro che finire la giornata con i piedi sotto il tavolo alla presenza di un tagliere di salumi e formaggi per aumentare i nostri trigliceridi e colesterolo? “Se beviamo vino rosso, che contiene molti polifenoli, contrastiamo il colesterolo e inoltre ne ricaviamo un’azione antiossidante” teorizzò Giacomo al quale prontamente rispose Andrea ”per toglierti l’ossidazione dovuta all’età, ti ci vuole una botte” proponendo il solito ghigno canzonatorio. Quali siano i risultati degli studi medico-scientifici sul vino non contava granché, nelle nostre terre abbiamo sempre saputo che un buon bicchiere non può fare altro che bene e di conseguenza ci comportammo. Tra chiacchiere e risate serene era giunta l’ora di risalire in auto e divallare. Uscimmo dalla locanda quando nel parcheggio c’erano sì e no un paio di auto e ai tavolini del dehors, due “local” si godevano gli ultimi raggi sorseggiando un bicchiere. Stava per inghiottirci la valle pressoché buia oramai e l’indomani sarebbe stato l’inizio di una nuova settimana con la solita idea di scalare ancora in quella luce e in quei luoghi.

 


Pian della Mussa circolare

Nei mesi estivi il Pian della Mussa si riempie di un’umanità variegata e variopinta, folle di vacanzieri consumano quintali di polenta e salciccia innaffiati da ettolitri di vino e cicchetti di genepì, altri si spiaggiano ai bordi della Stura “a lasardè come d’magnìn” come cantava Gipo Farassino. Se v’innalzerete, naturalmente di quota, sopra tutta questa gente, incontrerete camosci, stambecchi, marmotte ma pochi escursionisti sebbene i sentieri siano numerosi e ben percorribili. I panorami sono ampi e spaziosi anche se non così famosi come in regioni alpine più gettonate. A mio modo di vedere, il periodo probabilmente più bello è quello d’inizio autunno, meglio dell’estate piena quando spesso le nuvole pomeridiane, salendo dalla pianura, avvolgono le alte quote. A Settembre le cime restano sgombre, le ultime lingue di neve residua sono ormai scomparse da tempo e le giornate sono ancora lunghe e luminose. Un bel giro ad anello da percorrere, molto conosciuto benchè sempre poco percorso, è partire dal Pian della Mussa, passare per il passo delle Mangioire, raggiungere il Rifugio Gastaldi e quindi nuovamente il Piano. S’inizia dal parcheggio di fronte al ristorante-bar Bricco e passando davanti alle bianche casette Sigismondi, dove si trova una fonte, s’imbocca il sentiero 218 che sale subito ripido fino a una biforcazione, andando a sinistra è più ripido, conduce a Pian Saulera, dove s’incontrano i ruderi dell'alpeggio, a destra l'ascesa è più regolare ma leggermente più lunga raggiungendo peraltro Pian Saulera in un punto più alto dei ruderi. Si prosegue su sentiero tortuoso fino al Pian dij Alamàn Inferiore (m. 2354) da cui si comincia a vedere l'aspro vallone nel suo complesso e dove a inizio estate vi è una spettacolare fioritura di fiori gialli di genziana maggiore. A questo proposito è interessante sapere che probabilmente il toponimo del piano deriva dalla parola Alamàn, derivazione dal francese Allemand con cui erano indicate le persone di lingua tedesca. Verso  la fine dell'800 gruppi di Tirolesi stagionalmente raccoglievano le radici di genziana che poi erano distillate a Balme e al Pian della Mussa, poiché in quegli anni si andava imponendo la moda di quella bevanda. In passato si era pensato alla derivazione del nome da lingue germaniche (Burgundi o Franchi) e persino a un curioso Piano degli Amanti. Proseguendo si raggiunge il Pian dij Alamàn Superiore (m. 2480) più spazioso del precedente e percorso da un ruscelletto, dove spesso si abbeverano alcune Reines lasciate lassù a pascolare in condizioni di stato brado. Aspri fianchi cingono il Pian, a destra la lunga cresta che va da Rocca Tovetto al Monte Bessanetto mentre a sinistra, più lontano dal sentiero, vediamo la lunga dorsale di Punta delle Serene che prosegue con il caos roccioso (fenomeno morfologico misterioso e molto studiato dagli esperti) di Rocce le Pariate dopo l'interruzione del Colle delle Pariate. Il vallone è chiuso in alto dai contrafforti della Punta Loson. Dopo il Pian dij Alamàn superiore, il sentiero prende a salire ripido ma regolare in direzione del Passo delle Mangioire (m. 2768), una stretta fenditura di pochi metri di larghezza a circa 1000 m. di dislivello dalla partenza. Immediatamente dopo il passo si apre ampio e aperto, il bel vallone ovest del Monte Bessanetto col laghetto omonimo e in fondo sulla sinistra si ammirano la cresta delle Rocce Rosse e la Croce Rossa che fanno da guscio al lago della Rossa, un ambiente solitario da levare il fiato. Col sentiero 222 b, ampi pendii portano sulla dorsale del Colle del Bessanetto dove bisogna cercare un po' gli sbiaditi segni del sentiero che permette di scendere nel vallone opposto in direzione del Lago Crotàs (m. 2747). Il percorso si fa un po' più strano per la presenza di una zona di pietrisco fine abbastanza ammollato e umido (queste almeno le condizioni trovate da noi) prima di arrivare al limpido lago incastonato in una luminosa conca composta di rocce giallastre. E' un buon posto per uno spuntino e un po' di riposo. Questo luogo possiede una magia primordiale, un isolamento assoluto senza presenza umana né animale. Raggiunto un piccolo colle ( m. 2800) si ha accesso al vallone che si apre sul Rifugio Gastaldi, ma c'è ancora da camminare un po' per il sentiero che ad un certo punto incontra il 222 a-TB proveniente dal bivacco S. Camillo. L'ambiente è molto ampio, il sentiero ottimamente segnalato porta ad attraversare il Rio d'Arnàs salendo poi in modo regolare al Rifugio. La discesa al Pian della Mussa è senza storia particolare, ma in una giornata delle più limpide di tutta l'estate 2020 a noi ha riservato un maestoso panorama sull'Uja di Ciamarella. Un bel giro tutto sommato per nulla spaccagambe per la regolarità sia della salita che della discesa; ci si impiega una giornata intera (circa 14 km.) e ne vale la pena per tuffarsi in una natura che definire incontaminata non è esagerato né retorico.



Ai Piani di Bobbio

“Zuccone Campelli! Chi era costui? Campelli! Questo nome mi par bene d'averlo letto o sentito; […] ma chi diavolo era costui?”. Mi permetto di parodiare Manzoni per parlare in realtà di una montagna. Siamo in vicinanza di quel “ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno”, nelle Orobie e più precisamente in Valsassina i cui paesaggi si vedono nei Codici di Windsor di Leonardo e in alcuni sfondi di quadri, tra cui anche la Gioconda. Ed è proprio in Valsassina che si trova Il gruppo montuoso dei Campelli, fino a qualche tempo fa a me sconosciuto. Un territorio che sa offrire scenari molto belli e ampie possibilità sportive ed escursionistiche. Iniziamo col parlare dei Piani di Bobbio che si estendono a 1630 metri di quota. Furono possedimento del feudo monastico dell’Abbazia di San Colombano di Bobbio tra il VII e il X secolo. Utilizzati dunque da molto tempo come alpeggio, oggi sono anche un’area di divertimento invernale ed estivo. Il comprensorio della neve offre 35 km di piste, due anelli per lo sci nordico, gite di sci alpinismo, percorsi per le ciaspole. Nella stagione calda i prati si ricoprono di erba e fiori diventando zona di pascolo per bovini e ovini per la produzione di formaggi d’alpe di cui la Valsassina vanta fama. I Piani sono dominati dal massiccio roccioso di tipo dolomitico composto da Zuccone dei Campelli (2161 m.), Zucco di Barbesino (2152 m.), Zucco di Pesciola (2092 m.) e Corna Grande (2090 m.). Insieme alle più famose Grigne, sul versante opposto della valle, consentono a escursionisti, alpinisti, speleo e bikers di percorrere sentieri, ferrate, vie di roccia e cavità. All’interno del gruppo montuoso si aprono due aspre concavità parallele direzionate Est-Ovest: il Vallone dei Mughi o Megoff e il Vallone dei Camosci. I Piani di Bobbio sono puntellati di rifugi che consentono riposo e ristoro a colpi di polenta taragna con selvaggina o formaggi locali, Cagiada (sorta di cagliata), Taleggio con pere o mele, Scarpinasc (ravioli dolci) e Caviadini (biscotti di pasta frolla).

Per arrivarvi si può salire da Barzio (LC) o da Valtorta (BG).

v  Zuccone dei Campelli - Anello escursionistico (EE)

Dal piazzale d’arrivo della funivia si percorre lo sterrato che sale in direzione del prospiciente Vallone dei Mughi piegando poi a destra in direzione del Rifugio Lecco (1777 m.) che si trova all’imbocco del Vallone dei Camosci [ore 0,15]. Dal rifugio ci si dirige verso sud fino alla Bocchetta di Pesciola (1780 m.) dove inizia il Sentiero n° 30 “degli Stradini” che, con percorso panoramico, corre sui fianchi scoscesi dello Zucco di Pesciola passando anche in prossimità dell’attacco della ferrata omonima. All'inizio piuttosto facile, il sentiero diventa un po’ più impegnativo nell’attraversamento di alcuni canali, facilitato però da corde fisse e gradini, sbucando infine al Colle del Faggio (1839 m.) con fantastica vista su Resegone e Grigne. Si scende poi nella verde conca della Casera Campelli (1783 m.) e con una breve risalita si raggiunge lo sperone roccioso sul quale è appollaiato il Rifugio Cazzaniga (1889 m.), [ore 1,30]. Dal Cazzaniga s’imbocca il Sentiero n° 101 Anello dei Campelli in direzione della Bocchetta dei Mughi. Si sale a una selletta con piccoli pianori erbosi, passando per la Baita della Bocca (1923 m.), si continua in saliscendi tra valloni sovrastati dalle dolomitiche rocce dello Zucco di Barbesino e con vista su Cima di Piazzo e La Cornetta sull’altro versante. Si prosegue su una cengia non esposta, uscendo a una forcella. Dopo breve discesa si rimonta un ripido canale che sale alla Bocchetta dei Mughi (2010 m.) posta tra la Corna Grande e i Denti dei Mughi (2055 m.) [ore 1,20], con vista sulla parete nord dello Zucco di Barbesino. Si scende quindi senza particolari difficoltà lungo il Vallone dei Mughi fino ai Piani di Bobbio, [ore 0,30].

v  Zuccone dei Campelli - Parete Ovest - Fessura Comici  Comici-Cassin-Varale-Dell’Oro-Spreafico 28/5/1933 - 140 metri - Valutata dagli autori di IV grado inferiore.

 

·         Racconta Cassin nel libro “Capocordata. La mia vita di alpinista”. […] Comici ha espresso il desiderio di conoscere anche questa grande costiera di tipo dolomitico che massiccia si impone tra la Valsassina e la Valtorta[...] una volta che ci si trova dinanzi alla bastionata è per noi un piacere additare a Comici la parete inviolata. Numerosa è la brigata: oltre a Comici ci sono la Varale, Boga e Mario Spreafico [....] Realizzata la via, che battezziamo Fessura Comici, se ne divide fraternamente l'onore [....].

 

·         Un testo di C. Caccia su ”Orobie” ricostruisce il fatto. […] La scalata si svolse in concomitanza con la giornata del CAI al Rifugio Cazzaniga dal quale Comici e compagni raggiunsero la parete dello Zuccone dei Campelli scansando così il discorso dell’onorevole Capoferri che, come si legge su Il Popolo di Lecco del 3 giugno 1933: “[…] volle esprimere la vecchia ammirazione per il movimento alpinistico lecchese, […] parlò dei nostri combattenti ed eroi conosciuti al fronte e fra essi, esaltò la magnifica figura di Cazzaniga […] con un indovinato accenno al Duce d’Italia e del Fascismo, animatore di tutte le energie sane, utili e nobili ”.

Non posso che essere concorde con la scelta  degli scalatori che dedicarono la loro attenzione alle rocce piuttosto che a una stucchevole retorica di regime. Partendo dal Rifugio Lecco si risale la parte sinistra del Vallone dei Camosci lungo l’ampio sentiero sassoso che costeggia la pista da sci. Quando la strada fa un tornante verso sinistra si prosegue dritti verso il fondo dell’anfiteatro roccioso. Guardando verso destra, sulla parete ovest dello Zuccone si notano due evidenti camini paralleli, a sinistra di essi vi è la Fessura Comici che si raggiunge con una traversata sul fondo del vallone. La via è stata attrezzata dalle Guide della Valsassina con fittoni resinati.

SScalare la paretina iniziale e poi una larga fessura seguita da uno strapiombino. 40 m. – 4b

o  Verticalmente fino a una lama staccata; ancora verticalmente in fessura uscendone a destra, sosta su terrazzo. 20 m. – 4a

o   Fessura camino, terrazzini e poi un corto diedro. 25 m. – 4a

o   Superare una paretina nera da destra a sinistra, uscire su una cengia e salire per saltini fino alla base della parete soprastante sostando al suo limite sinistro. 25 m. – 4b

o   Aggirato lo spigolo, salire un diedro-camino e uscirne a destra con ottimi appigli. Proseguire fino alla sosta rimontando i vari salti. 30 m. – 4b. Dal termine della via spostarsi sulla cengia sino alla ferrata che conduce in vetta. 




Lou Pountat

Era un bel periodo con giornate soleggiate, un buon caldo estivo ma non troppo afoso, una di quelle stagioni di cui ci eravamo quasi dimenticati dopo anni di stravaganze metereologiche. Si poteva dunque andare in montagna abbastanza tranquillamente senza dover per forza consultare nei dettagli le previsioni dei vari Nimbus, Accuweather ecc. Era la fine di Agosto quando Marco mi propose un’escursione a Balme, testata della Val d’Ala. Mi parlò di un giro proprio dietro casa sua, potremmo dire. Il luogo è localmente detto Lou Pountat. Si tratta di un ampio vallone che si estende a ovest di Balme e va da Punta della Losa al passo delle Mangioire. Luogo completamente abbandonato, rara meta di sperduti escursionisti dove i vecchi sentieri che collegavano gli alpeggi si sono ormai persi. E’ un luogo abbondantemente soleggiato, aspro e selvaggio, gli arbusti e gli alberelli dominano nella parte bassa, mentre in quella alta la rada vegetazione erbosa lascia progressivamente il posto a pietraie ed estesi scivoli rocciosi. Si cammina sempre all’incirca a una quota di 2.000 metri. Per visitare questo vallone occorre compiere un’escursione ad anello piuttosto lunga ma con un dislivello moderato, passando un’intera giornata in assoluta solitudine a parte qualche furtivo incontro con pernici o camosci. Verso la fine dell’escursione, l’incontro è invece con animali più familiari, alcune mucche che, lasciate a ruminare lassù, muggiscono al passaggio di qualunque essere vivente ricordi loro il “marghè” che di tanto in tanto sale a vederle. Lou Pountat è un luogo topograficamente vicino alle abitazioni, ma percorrendolo ci si sente lontani nel tempo, un tempo fatto di vita di sussistenza, di pascoli magri, di vita dura. Lo si può raggiungere dal fondovalle in un’ora e mezza ma pochi si cimentano con la traversata. Questa non presenta scorci esclusivi né difficoltà particolari ma la rende interessante il contatto con l’ambiente di una passata realtà di pastorizia, tipica della zona. I panorami sono ampi su tutte le montagne dei dintorni tra cui ovviamente le più alte fanno la loro parte: Bessanese, Ciamarella e Uja di Mondrone. Partimmo dunque in mattinata e la giornata prometteva caldo ma niente temporali, tutto era dunque perfetto. Salimmo al verde lago Paschiet, un piccolo bacino contornato da una vegetazione di caratteristico colore giallo intenso che contrasta con il colore delle acque. Dal lago è molto evidente la breccia che permette di scavalcare la cresta rocciosa della Losa della Sarda e dà accesso a Lou Pountat. La temperatura era decisamente calda e il sudore abbondante mentre salivamo sulla arroventata pietraia che porta al colletto ma per fortuna di tanto in tanto una lieve brezza arrivava a rinfrescare un po’. Arrivati sotto il colle, alcune cenge oblique ci consentirono di raggiungere abbastanza agevolmente il punto di scavalco. Il panorama apparve stupendo su tutta la catena delle Graie. Occorreva dunque scendere “la losa”, un lungo scivolo roccioso da disarrampicare dove non è necessario avere una corda se si fa un po’ di attenzione. Ora davanti a noi si estendeva l’ampio vallone soleggiato nel quale scendemmo velocemente seguendo le tracce di un sentiero che ben presto svanì nella vegetazione. Mentre ci aggiravamo in rododendri e mirtilli, purtroppo non ancora maturi, fummo presto circondati da una colonia di mosche che decisero di tenerci compagnia, si parcheggiarono sugli zaini, sulle magliette, sul mio cappello e sulla assolata nuca di Marco, ronzando “allegramente” per lungo tempo sulla nostre teste. Seguendo così un percorso non ben preciso tra arbusti, pietraie e zone erbose, sorpassammo i ruderi degli alpeggi di Servin e Alpe Pontat, giungemmo all’alpeggio Pian Giae e infine a Balme dopo una lunga cavalcata di circa otto ore. Un bel giro che mi sento di consigliare a chi vuole apprezzare l’isolamento e la solitudine per una giornata.

 



In Sarezza

La cultura montana non potendo comprendere o governare certi fenomeni naturali, li ha spesso spiegati ricorrendo al mondo della magia, della superstizione o della fede religiosa. Così numerosi luoghi conservano traccia di presenze di spiriti più o meno malvagi, diavoletti, angeli, santi e avvenimenti senza spiegazione. Non fa eccezione il Monte Sarezza che sovrasta Champoluc, in Val d’Ayas. Si dice che un tempo, il curato di Ayas possedesse un libro di feusecca (magia in patois) e lo avesse utilizzato per domare e punire un gruppo di diavoletti che gli avevano messo sottosopra il “rascard”. Durante la confusione indemoniata, ordinò agli spiriti di rimettere nei sacchi il grano e la segale sparsa sul pavimento, nel frattempo trovò le formule magiche contenute nel libro per mandare i diavoli al Sarezza con il compito di demolire la montagna servendosi solo di un comune cucchiaio. Da anni e anni i diavoli si danno da fare ma non hanno ancora portato a termine l'impresa. Questa leggenda popolare cercava di giustificare la tendenza del Sarezza a scaricare abbondanti detriti lungo i canaloni, formando così coni di deiezione facilmente osservabili sui fianchi rocciosi del monte. Il Monte Sarezza (2820 m.) possiede un'anticima a 2712 m. che termina con una terrazza rocciosa, molto panoramica, su cui sorge una vecchia croce metallica sostenuta da cavi. Quest’anticima è il punto di arrivo per gli scalatori che salgono lo spigolo nord ovest. Per fortuna l’azione dei diavoli non si è ancora rivolta a questo lato della montagna o perlomeno non completamente, rimane dunque molto spazio per chi si vuole dedicare all’arrampicata. Lo spigolo in questione fu salito per la prima volta dalla cordata Frachey-Pasteris nel 1948. Negli anni è diventata una classica della zona piuttosto avara di belle salite su roccia. Si tratta di un’arrampicata su ofiolite, una pietra un po’ scivolosa in particolare per la presenza di lichene, il che ne sconsiglia la salita in periodi umidi o subito dopo un temporale. Dall'arrivo della stazione di Ostafa si deve, faccia a monte, traversare verso sinistra seguendo un piccolo sentiero poco battuto ma segnalato da ometti. Aggirato l'angolo del monte, da cui non si vede più la seggiovia, è necessario superare un primo spigolo, portandosi al successivo, oltrepassare il muro rossastro della variante integrale (spit visibili) e proseguire un po’ in salita su pietraia (forse frutto del lavoro dei diavoletti) fino alla base di un diedro canale che porta come tracce di passaggio i resti di un termos arancio, un bastoncino da sci rotto, un paio di calzini datati e qualche spezzone di cordino [ore 0,40]. Si sale un primo tiro abbastanza brutto su roccia poco sicura. Si prosegue poi in un bel diedro di roccia ottima e di bel colore rossastro, obliquando quindi a sinistra per aggirare uno spigolo e salire fino alla sosta. Ci si trova dunque a una fessura-canale che si sale sul bordo sinistro fino a doppiare uno spigolo verso sinistra infilandosi in un buco vero e proprio, normalmente definito “boite au lettres”, che porta a uno stretto camino da risalire uscendo sullo spigolo panoramico e raggiungendo la sosta per un tratto senza chiodi e non proteggibile di una decina di metri. Si prosegue sempre sul filo del verticale spigolo con divertente ed elegante arrampicata su roccia ottima per due lunghezze da 60 e 50 m. rispettivamente. Giunti a una vasta terrazza si sale in conserva per circa 150 m. di roccia rotta fino alla base del rossastro saltino finale che si supera con bella scalata per un muro fessurato che termina sulla cima. In via sono presenti alcuni chiodi vecchiotti e una decina di spit. Difficoltà di 4° superiore. Alla fine delle difficoltà, il panorama scorre a 360 gradi su tutte le cime del Monte Rosa dalla Piramide Vincent fino ai Breithorn, il Cervino, sullo sfondo Ruitor, Emilius e Gran Paradiso nonché la cima del Monte Bianco e quindi Punta Piure e Monte Zerbion. Per scendere dall’anticima piatta occorre imboccare un ripido pendio-canale erboso, più in basso, quando la traccia diviene segnalata (bolli rossi) e conduce a Crest, la si abbandona traversando i pendii a sinistra sino a riprendere la via di avvicinamento lungo la quale si torna a Ostafa. In alternativa si può scendere fino a Champoluc dalla cima senza passare da Ostafa ma raggiungendo direttamente la stazione del Crest e poi proseguendo su bel sentiero che attraversa stupendi rustici e belle pinete [ore 2].





Lo Spirito del bosco

Come sappiamo bene anche in montagna, secondo le leggende popolari, il bene e il male si sono sempre combattuti aspramente e questo accadeva anche nei pressi del lago di Como dove demoni e angeli si facevano guerra da tempo immemorabile. Fu così che il generale Canzio, possente e terribile comandante dei diavoli, a causa di un potente starnuto provocato dall’astuzia di un arcangelo, lasciò infissi nel terreno le corna e alcuni denti che, pietrificati per volere dell’Onnipotente, diedero vita a Corni di Canzo e Resegone. Per quanto riguarda il Resegone, in effetti, da qualunque parte lo si osservi, appare come una cresta dentellata ma i Corni di Canzo sono tre e non due come le corna di ogni diavolo che si rispetti per cui anche di Canzio. Dopotutto dice il Sommo Poeta: ”Vuolsi così…e più non dimandare”, meglio quindi non scervellarsi oltre. Per raggiungere i Corni, consiglio di prendere un treno da Milano per Canzo-Asso (Ferrovie Trenord). Si viaggia comodamente poco più di un’ora invece di stressarsi nel traffico infernale della SS36 verso Lecco. All’uscita della stazione è facile individuare le indicazioni per Fonte Gajum che si raggiunge  in circa quindici minuti di agevole cammino. Siamo dunque nell’area dei Corni di Canzo (localmente detti Curunghèj), localizzati nel Triangolo Lariano ovvero quella parte della Brianza che s’incunea tra i due bracci meridionali del lago di Como, luogo bellissimo delle Prealpi puntellato di laghetti e rilievi che sono meta di numerose escursioni nonchè arrampicate su roccia. Dalla Fonte Gajum (485 m.) continuiamo dunque raggiungendo in breve tempo Prim’Alpe (725 m.) dove ha inizio Lo Spirito del Bosco, un sentiero corredato da una serie di sculture lignee dell’artista A. Cortinovis. Superata la fontana, sul lato destro della strada, si attraversa un corridoio di tronchi e subito possiamo vedere il primo personaggio scolpito su un albero. Il percorso non è per nulla faticoso e il dislivello non certo impossibile. Dopo un'iniziale discesa e l'attraversamento del torrente, il sentiero alterna ripiani a brevi discese, prosegue con alcuni strappi, facilitati da scalette e tornanti, che portano in quota fino a incontrare nuovamente la strada poco distante da Terz’Alpe (800 m.) ove sorge l’Azienda Agrituristica Corni di Canzo (un’ora e trenta con calma, sostando per osservare e fotografare le statue). “Lungo tutto il percorso, in parte protetto con staccionata, disseminati qua e là, gli spiriti del bosco che ci osservano e ci guidano lungo la strada. Arrivati al labirinto, si ha l'impressione di perdersi ma alla fine l'uscita si trova sempre e, dopo pochi passi sulla passerella, il tragitto volge ormai alla meta.” Questo è il commento che compare sul sito istituzionale del Comune di Canzo che ospita una pagina specifica per i sentieri dei Corni.

Il ritorno può essere effettuato per il Sentiero Geologico G. Achermann che, passando per l’eremo di San Miro al Monte (a.d. 1643-1660), scende a Gajum. Su questo sentiero [segnavia 2] si possono osservare massi erratici, una marmitta glaciale scavata dal lavorio delle acque e vari tipi di rocce come rosso ammonitico, serpentino, quarzo e gneiss (un’ora e trenta circa).

Possibili varianti: L'Azienda Agrituristica Corni di Canzo (ex Rifugio Terz'Alpe) è una buona base di partenza per escursioni nel Triangolo Lariano:

·         la traversata al Rifugio S.E.V. (1225 m.) collocato sul vasto pianoro di Pianezzo alla base dei Corni,

·         la salita alle tre cime dei Corni, Occidentale (1373 m.), Centrale (1368 m.) e Orientale (1232 m.),

·         il curioso Sasso Malascarpa (1198 m.),

·         il Monte Prasanto (1244 m.), noto per la sua geomorfologia carsica, da cui si può eventualmente proseguire fino a raggiungere il Monte Rai (1259 m.), ottimo punto panoramico.

Numerose relazioni di queste salite si trovano in internet, non ho notizia invece di una guida cartacea recente dei numerosi sentieri della zona.