sabato 10 luglio 2021

1981 verso Katmandhu

“Hai trovato la bottiglia di acqua?” mi disse il piantone della sala d’attesa di seconda classe nella stazione di Benares. L’avevo cercata a lungo, aggirandomi per “la Platform 1”, in mezzo a tutti quei corpi distesi a terra  in attesa di chissà quale treno. Molti aspettavano certo un treno, qualcun altro semplicemente aveva trovato un posto per dormire al riparo dalla pioggia monsonica che quel giorno aveva battuto la città per diverse ore. L’aria si era rinfrescata notevolmente, Benares non era più quel posto caldissimo ed afoso di qualche giorno prima, pur rimanendo la temperatura sempre quella di una estate tropicale. Mentre  aspettavo il treno, mi tornavano in mente i giorni passati e nella pelle sentivo le sensazioni provate in luoghi diversi con gente diversa. Come al solito, all’imbrunire, mi prendeva quella nostalgia strana, triste e piacevole al tempo stesso. La voglia dei suoni del mio paese che non vedevo da anni, degli odori della cucina di mia madre. Quelle luci gialle della mia città, tutte quelle auto in fila ordinata e quasi silenziose sull’asfalto bagnato di pioggia autunnale; come erano diverse da quelle che percorrevano le vie delle megalopoli del terzo mondo in cui vivevo ormai da lungo tempo. Ero passato di continente in continente, come se non fossero staccati o separati da mari. No. Erano, per me,  quasi collegati da una lunga e sottile striscia sabbiosa sulla quale mi sembrava aver camminato. Tutto era una specie di unico stato universale, multilingue e multietnico. In buona sostanza i confini esistevano ancora… eccome! Polizie a presidiarli e regolamenti burocratici a rafforzarli. Dato comune erano le complicazioni formali ed i moduli da riempire: fogli a non finire, scritti, timbrati e controfirmati, che irrimediabilmente giacevano in cassetti mai vuotati oppure venivano dispersi dal turbinio d’aria di un ventilatore lanciato “a palla”. Sembrava quasi che quanto più un paese fosse  povero, tanto più burocrazia si inventasse per il semplice gusto, in apparenza, di complicarsi la vita. Complicarsi? Complicarla a quanti, cittadini o stranieri, avessero intenzione di passare quella striscia gialla che sul pavimento degli aeroporti delimita lo spazio tra il banco del funzionario ed il passaporto nella propria mano. Striscia gialla che può, paradossalmente, esemplificare la differenza economica tra stati, oppure abitudini generali di un popolo. Ad Hong Kong, Singapore, New York era perfetta, senza sbavature, per lo più di plastica termosaldata sui pavimenti gommosi… eterna. A Delhi era approssimativa, dipinta con vernice a due passate che, non combaciando, formavano ampie sbavature per tutta la lunghezza dando l’effetto di quel pressappochismo che distingue molto di quanto è di proprietà pubblica in India. Quante volte mi si ero scontrato, nel mio permanere in quel paese, con la burocrazia ed i regolamenti senza senso alcuno. Le cose più strane potevano accadere nella stessa stazione come ad esempio due depositi-bagaglio che osservavano orari così diversi da essere incomprensibili: uno aperto 24 ore su 24, l’altro con orari di chiusura da mezzanotte all’una, dalle otto alle nove e dalle sedici alle diciassette! Sovente avevo visto stramberie simili e mi ero adattato di fronte al sorriso ineffabile dell’addetto: “this is India , Sir”. A volte era stato un problema farsi cambiare un Travel-cheque dal solerte impiegato di banca: “firmi qua e metta la data” osservando attentamente e storcendo la bocca piena di Paan masticato  “ mi dia il passaporto, la firma non è uguale” “come sarebbe a dire che non è uguale ! ” “queste due firme sono diverse” “non è possibile sono entrambe mie !” “eppure sono diverse” “sono fatte a mano, non essendo stampate non possono essere perfettamente identiche” La frase l’avevo imparata nei bazar del paese quando, trovato un manufatto difettoso, i commercianti regolarmente tiravano fuori questa espressione per dare risalto all’artigianalità del pezzo. Di fronte a tanta sicurezza, il bancario, scuotendo il capo, non poteva fare altro che compilare i quattro moduli e mandare tutto alla cassa per il pagamento che avveniva dietro presentazione di contrassegno numerato inciso su di una placca di ottone lucidissima. Anche prendere il treno poteva riservare sorprese. Fu quanto mi successe mentre andavo a Katmandhu, la città dai 100 templi, viaggiando da Benares, la città dai 1000 templi. Avevo comperato un biglietto tramite un maneggione di un albergo. Era infatti difficile, in quel periodo, ottenere una cuccetta di seconda classe senza pagare un ”bakshish” all’impiegato della “ Indian Railway”. Una cuccetta in legno non imbottito e la prospettiva di 12 ore di viaggio era quanto avevo ottenuto. La stazione di Benares, la più sacra città induista, offriva lo spettacolo di tutte le stazioni indiane amplificato cento volte. Cumuli di corpi accampati, bambini, donne, Sadhu, storpi e lebbrosi, materassi, coperte ed in un angolo un corpo senza vita, coperto di ghirlande di fiori, in attesa di essere portato sulla riva del Gange ed ivi cremato sulle piattaforme dove ardono in continuazione le pire. Scene forti, cariche di umanità e drammaticità agli occhi di chi si accosta per la prima volta, per me rientravano nella normalità della  vita. Nel momento in cui il treno arrivò sul binario, l’aria si riempì di fumo nero ed acre. Lo stridore dei freni si mescolò alle voci dei venditori di thè “ciaiii, ciaiii”. Lentamente la folla si alzò dai giacigli improvvisati e cominciò a prendere posto nei vagoni: qui e là valigie, scatoloni, materassi arrotolati, su tutto galleggiava un bellissimo sitàr. Salii e mi addormentai quasi  subito nella cuccetta di terzo livello (in altezza); era ormai notte ed il pomeriggio seguente avrei raggiunto la cittadina di Raxaul e quindi l’attraversamento di un ponte mi avrebbe condotto alla  frontiera nepalese di Birgunj. Qualcosa però non funzionò. Mi svegliai all’alba in un treno fermo sui binari e completamente vuoto. Tutta quella moltitudine variopinta era di colpo evaporata. “siamo a Raxaul?” chiesi  “no” gli rispose un ferroviere in divisa “Raxaul è 200 km più avanti, ma il treno non va oltre, devi scendere” “ma io ho il biglietto fino a Raxaul” “la line ferroviaria è interrotta da due anni! Capisci… il monsone se la è portata via” “ ma perché mi hanno venduto un biglietto per un posto che non è raggiungibile?” “e chi lo sa, ti hanno fregato, ma non te la prendere…” Fuori dalla stazione numerosi “riksawali” aspettavano clienti da portare sul loro triciclo: “bus per la frontiera ! ” urlavano. Salii sul primo e fui condotto al “bus stand” dove appresi che nessun mezzo diretto era previsto per il Nepal; solo cambiando a Muzzafarpur e quindi compiendo un lungo giro, si arrivava in giornata a Raxaul. Ma ecco entrò in scena Michel, il parigino, spuntando dal nulla: “hei friend ! Forse riusciamo a prendere un mezzo, vieni !”. A quel punto  lo seguii sconcertato avendo in fondo piacere di dividere il tragitto con  un occidentale. Salimmo su di un autobus a dir poco pittoresco: struttura in legno, motore fumante, niente vetri, almeno cento passeggeri. “ dove ci sediamo?” “ roof,  roof ” indicò l’autista,  eggià… il tetto. Viaggiammo ore e dopo si e no 80 km il mezzo si fermò in un villaggetto sperduto tra le verdissime risaie del Bihar. Vidi allora la più spassosa scena degli ultimi tempi. C’era, sotto una tettoia sforacchiata, una bettola che serviva pasti. Come al solito nella parte anteriore era posto il grande forno in argilla refrattaria con grandi fori  in cui infilare i pentoloni, ebbene, tra un foro e l’altro stava seduto il cuoco  e tagliava le cipolle ! Per refrattaria che fosse l’argilla, la temperatura doveva esse altissima, ma costui se ne stava appollaiato con noncuranza intento nel suo lavoro, un po’ nero di fuliggine ma assolutamente a suo agio. Affettava le verdure con una mannaia affilatissima e guardava intorno con occhio burbero. Ramo era il suo nome. “too much” esclamai “too much”, una espressione molto un voga in quegli anni. L’ambiente era veramente… too much. “ chawal ? ” chiese Ramo “ah chawal” risposi scuotendo lievemente il capo a destra ed a sinistra per annuire. Avevo ordinato un piatto di riso ma non volevo assolutamente le verdure che galleggiavano in un intingolo rossastro. Non ci fu modo di far capire al torvo cuoco che volevo solo riso, la cosa suonava come terribile offesa alla di lui abilità culinaria e quindi mi vidi sbattere una mestolata di sugo nel piatto, “questo è il miglior curry della zona “ pareva dire Ramo guardando di traverso ingrugnito. Si rivelò tutto sommato niente male …l’intruglio. Nel frattempo, il problema era sempre quello di trovare un trasporto. Ancora una volta saltò fuori Michel accompagnato da due indiani che avendo una jeep erano disposti a portarci. Ma dove? Per strade polverose e dissestate viaggiammo veloci verso la frontiera… dodici dentro e due appesi fuori. “ c’est toutjour la galere !   commentò il parigino. Finalmente il posto di controllo di Birgunj. Una baracca di legno all’interno della quale due sorridenti militari nepalesi ci controllarono il passaporto e ci fecero pagare 10 dollari per il visto, alla fioca luce di una candela. Ingurgitai un “ciai” prima di crollare sul materasso, sotto la protezione di una zanzariera. L’odore di bucato del lenzuolo fu l’ultima cosa che percepii, inspirai profondamente e cominciai a sognare.

 


 

 

 

giovedì 1 luglio 2021

Sato

 Deserto di Atacama  -  Cile   1996  

"Sato, mi chiamo Sato, sono di Tokyo”

 “piacere di conoscerti, viaggi da lungo tempo ?”

”da oltre tre anni”

“mmm…a long ride”

“yes, yes, a very long ride”.

Stavamo nella stessa guest-house a San Pedro de Atacama, Cile del nord. Ci scambiammo queste poche parole mentre sistemavo le mie cose in una stanzetta che dava sul cortile dove Sato se ne stava tranquillamente seduto sotto un tiepido sole. Una sottile sigaretta gli pendeva dalle labbra, grandi occhiali da sole gli proteggevano gli occhi dagli u.v. dei 3500 metri di quota a cui ci trovavamo. Entrambe eravamo lì per vedere Atacama con le sue dune e laghi salati, eravamo lì per passare la Cordigliera delle Ande e scendere ad Uyuni in Bolivia. Io avevo intrapreso una lunga cavalcata di circa 4 mesi che dal Cile mi avrebbe portato ai Caraibi seguendo tutta la Cordigliera. Il mio viaggio appariva certamente, in confronto a ciò che stava facendo quel giapponese, una bazzecola, ma per me era già una grande opportunità. Preferiva farsi chiamare col cognome “il mio nome è Takeshi, ma spesso la gente confonde con Takashi ed allora… Sato è più facile oltre che breve. A Tokyo ero architetto, lavoravo come una bestia, facevo forse 10 giorni di vacanza all’anno, avevo la colite, la gastrite, la tachicardia e l’ansia. Pensai che dovevo fare qualcosa, cambiare qualcosa.Parlando col mio maestro Zen capii che dovevo dare un taglio netto alla mia vita. Mi licenziai dallo studio e partii per stare via sei mesi…ora sono qui. Ho tagliato definitivamente con la fidanzata, e molto probabilmente anche col Giappone, penso che non ci tornerò a vivere” La tranquillità ed il distacco con cui mi raccontò queste cose non lasciava dubbi sulla sua determinazione rispetto a questa scelta di vita. Stava cercando un luogo in cui vivere diversamente, mettendo a frutto le sue conoscenze ma senza esserne schiavo. Avevo incontrato, in vari angoli di questo mondo, viaggiatori a “lunga scadenza”, per così dire, due anni per l’ingegnere tedesco che partì da casa con due germanie  e si apprestava a ritornare in una unica, un anno e mezzo per la coppia di svizzeri che aveva attraversato l’Africa in bicicletta, sei mesi erano un tempo comune a molti viaggiatori ma tre anni e più era veramente tanto. Sato era una specie di macchina inarrestabile, aveva girato la Scozia in pieno inverno con un motorino, era caduto ammalato d’epatite in Egitto, in Costa Rica aveva avuto uno scontro fisico con due rapinatori e li aveva messi in fuga col nunchaku, due bastoni di circa 50 cm. uniti da una catena, che diventano, in mano a chi ne conosce l’uso, un’arma temibile e devastante.“il nunchaku lo porto sempre con me, ogni sera faccio gli esercizi, concentrazione, respirazione, rotazioni, parate, attacco, fa bene allo spirito ed al fisico” Ebbi modo di assistere a questi allenamenti per quel breve tratto di viaggio che facemmo insieme. La sera dopo cena, mi mostrò alcuni disegni e schizzi che aveva fatto viaggiando. Con la matita aveva tracciato decine di riproduzioni di facciate di palazzi antichi, chiostri di certose medioevali in Italia, colonne ed archi a Granada, statue indiane di Kajuraho, rovine Inca, montagne della California, paesaggi un po’ ovunque, in bianco e nero o a colori. Era una raccolta impressionante di colpi d’occhio, di ricordi e sensazioni, era il suo modo di raccontare ciò che aveva visto, di fermarlo per sempre. Lo vidi all’opera sull’altipiano, mentre, in brevissimo tempo, disegnò i trampolieri rosa che popolavano gli stagni d’alta quota, le lunghe gambe, i becchi ricurvi, quel loro movimento a scatti, i colpi di becco secchi e precisi, c’era tutto nel disegno di  Sato. A differenza del classico giapponese in giro per il mondo, Sato raramente scattava foto, non si lasciava dietro una scia di click, non dormiva con la Nikon, preferiva un altro genere, un genere, contemplativo, personale, per dirla colloquialmente, ci metteva del suo. Decidemmo in breve che saremmo andati al “valle de la luna” per vedere il plenilunio, bivaccando nel sacco a pelo in quella distesa di sabbia e dune spettrali sotto la fredda luce lunare. Ci accompagnò in auto e per pochi soldi,  un tizio di San Pedro con l’impegno di tornare il giorno seguente a riprenderci. Scaricammo la legna per il fuoco e l’attrezzatura per cucinare, congedammo l’autista e sistemammo le nostre cose in un anfratto di solida arenaria dove trovammo resti di passati addiacci.Avevamo appena acceso il fuoco e la legna aveva iniziato a scoppiettare scaldando intorno la fredda notte andina, quando avvertimmo il rumore di un motore e subito dopo due fari lacerarono il buio davanti alla nostra “residenza”, due belgi, lui e lei, si aggregarono a noi dopo aver accettato l’invito. Intorno al fuoco, l’uomo, da sempre, ha raccontato le sue storie, così facemmo noi. Le nostre vite scavalcarono le fiamme e si incrociarono sopra il fuoco, i nostri racconti fluirono amichevolmente ed a tratti le risate rompevano il profondo silenzio del luogo. La simpatia si era creata tra noi, corroborata ,ovvio dirlo, dalle due bottiglie di ottimo “ tinto de chile”. Scattò spontaneo l’applauso, quando Sato estrasse fulmineo dalla giacca una bottiglietta di acquavite, il classico coniglio dal cilindro, con tutto quel alcool…un coniglio al “civet”. Magicamente la luna fece la sua comparsa da dietro le nuvole e la valle si popolò di ombre che in movimento flessuoso seguivano le creste delle dune e si perdevano là dove non potevamo vedere per il buio. Jos, il belga, ululò, ma nessuno rise, ognuno era in preda ai propri pensieri, la malinconia invase il cuore di qualcuno, ma passò presto e fu cacciata da un ultimo sorso di vino. Il sole del mattino si levò dal bordo della gran duna che fronteggiava il nostro bivacco.Dapprima con qualche raggio ma poi pienamente e violentemente investì la nostra spelonca che si colorò di un rosso caldo e forte. Sull’arenaria rimbalzò il calore e ci preparò all’uscita dai sacchi a pelo. Avevamo dormito profondamente e c'eravamo persi l’alba “poco male” pensai e mi rigirai nel giaciglio, tanto valeva poltrire ancora un po’. Dalla cima della duna di fronte, Kato con ampi gesti e fischi ci invitò a raggiungerlo. Arrancammo nella sabbia fine, un metro su e mezzo giù, ma quando raggiungemmo il crinale il fiato lungo per la corsa mi si mozzò in gola. Davanti a me c’era una distesa di dune, canyon, valli, montagne a perdita d’occhio. Sfumature ocra con striature gialle bordavano i fianchi dei rilievi, il cielo già blu con striature bianche bordava la terra visibile e, lontano sulla destra, una montagna color mattone dominava sulle altre, un antico vulcano spento. “mon dieu !” disse Corinne sedendosi nella sabbia e cingendosi le ginocchia con le braccia, le si inumidirono gli occhi. La bellezza del mondo era lì davanti a noi. Uno spazio che pareva non avere fine. Girandomi a 360° m' accorsi che dovunque c’era una grandiosità senza fine, anche nei granelli di sabbia anche nelle piccole cose, i granelli di sabbia così insignificanti singolarmente presi e così importanti nel costituire quella massa di montagne multicolori. Passammo due giorni dopo il nostro ritorno in allegria ed amicizia in giro per bettole e locali di San Pedro, dove gli stranieri si mescolavano ai cileni in serate di brindisi e schiamazzi. Partimmo dunque per la Bolivia. La strada sterrata che da San Pedro saliva al confine ad oltre 4.000 metri, era dominata dalla possente mole del Licancabur, la sua forma tronco-conica non lasciava dubbi sull’origine vulcanica. La sua cima ospitava, a  quota 5.920, il lago più alto della terra e con la caratteristica di non gelare mai nonostante la temperatura raggiunga i 25-30 sottozero. Si dice gli antichi abitanti della zona (gli insediamenti raggiungevano i 4.500 metri) lo usassero come luogo di avvistamento e controllo. Nuvole scure, durante il nostro passaggio, coprivano, a tratti, la cima e rendevano il paesaggio cupo e misterioso, sotto di esse le acque della Laguna Verde lambivano le radici del vulcano. Questa “Laguna” era un lago circolare le cui acque, di un vivido color verde dato da minerali di rame in esse disciolto, erano bordate da una curiosa schiuma biancastra mossa e spinta a riva dalle onde, producendo un effetto stupefacente non appena il sole riprendeva spazio e cambiava la luminosità del giorno. Giungemmo dunque ad un avamposto militare boliviano. Due piccoli soldati infreddoliti intorno alla stufa ci sorrisero guardando i nostri passaporti: “Il posto di polizia è giù a San Josè, sul “salar”, lì vi porranno il timbro, per noi potete passare”. “Jovenes quieren un mate?” disse la mamìta uscendo da una capanna lì a fianco. Era una donna dall’età incerta, viveva lì cucinando per i soldati e per chi attraversava. ”Ogni 3 mesi scendo ad Uyuni, mi scaldo un po’, fa così freddo quassù e poi c’è il soroche, il mal di montagna, a volte è così forte che neanche le foglie me lo levano”.              Si riferiva alle foglie della coca. Questa pianta sacra alle popolazioni delle Ande, produce molti benefici a chi vive sull’altipiano: attenua gli effetti del soroche, diminuisce i morsi della fame e masticata insieme alla calce, oltre a devastare bocca e denti, produce un po’ di energia, un po’ di forza per andare avanti anche mangiando poco. Memore di altri viaggi, ne comprai un sacchetto ed iniziai a masticare (senza calce !) e di lì ad un’ora il mal di testa si attenuò, le tempie smisero di battere , respirai meglio nell’aria rarefatta. Non eravamo molto acclimatati per cui ogni cosa lassù era pesante, bisognava muoversi lentamente e dosare gli sforzi. Il cielo era a tratti un misto di latte e carbone a strisce. La jeep cilena ci lasciò , insieme ai nostri bagagli, in consegna a quella boliviana che era venuta su da Uyuni e subito la moglie dell’autista ci preparò dei panini al prosciutto, si avvicinava mezzogiorno. Non potei mandare giù che due bocconi, ripresi a masticare la “oja”. Nella jeep, oltre a Sato, a me ed ai belgi, vi erano due ragazze australiane, una delle quali di origine italiana. Ci rivelammo essere un gruppo cordiale ed affiatato. L’automezzo procedeva sulla pista sabbiosa puntando ad alcuni rilievi rocciosi all’orizzonte. Tutto intorno, il paesaggio era mutato, mentre la parte cilena era per lo più brughiera e pietraia stepposa, quella boliviana era desertica e secca. Il vento, anche in presenza di sole, ci obbligava a vestire maglione e giacca a vento. Sostammo presso una sorgente di acqua calda. Alla sua base si era formata una piscinetta dentro cui solamente Sato ebbe il coraggio di buttarsi dopo essersi spogliato ad una temperatura esterna forse sotto zero. Sguazzò come un germano migrante per un po’ di tempo e quindi uscì ad asciugarsi tremando come una foglia sotto le folate di vento. Sentii freddo a guardarlo. Gli affioramenti di acque calde sono piuttosto comuni in aree vulcaniche ed il nostro prossimo obiettivo erano proprio dei “geyser” a 4.900 metri. Raggiungemmo i rilievi che vedevamo da circa mezz’ora sullo sfondo. Erano delle enormi rocce completamente erose e tafonate dall’azione congiunta di vento e sabbia. Gli elementi avevano formato delle curiose sculture multiformi, le guardai con occhio da scalatore, sarebbe stato molto bello salirle. Il tempo peggiorò. Il cielo si fece, da lattiginoso che era, sempre più buio e la jeep avanzava nella sabbia senza difficoltà. D’improvviso una tempesta di neve con forte vento ci piombò addosso, i fiocchi cadevano intensamente ed in meno di mezz’ora la neve raggiunse 30-40 cm. L’automezzo cominciò ad avere qualche problemuccio…ed anche l’autista il quale cercava di orientarsi nella foschia totale. Di tanto in tanto apriva il finestrino per vedere meglio cercando di trovare un riferimento in una roccia, in un avvallamento :”Conosco bene la zona, vengo quassù da quasi due anni, tutte le settimane”  “ No hay problema “, queste parole mi rincuorarono, non mi sarebbe piaciuto perdermi e dover bivaccare lassù nella gelida lamiera della Toyota. La moglie era molto meno tranquilla, sorrideva nonostante dimostrasse un’aria preoccupata. Accadde ciò che doveva. la Toyota si infossò, le ruote scavarono una profonda buca e sprofondarono nella neve, ci fermammo sulla pista, in salita. “oh my god, oh my god” ripeteva l’australiana, visibilmente impaurita. Cercai di smorzare la tensione: “ eh eh  in Australia non nevica, vero?, vedrai ci leveremo d’impaccio in breve”. L’autista ci passò le pale mentre continuava a nevicare ma il vento era diminuito e la temperatura accettabile per il luogo in cui ci trovavamo. Si scavò e si spinse, ognuno per parte sua, alla fine, tutto sommato facilmente, in una mezz’oretta ne venimmo fuori, dopo esserci “piantati” un altro paio di volte. “Lassù ai geyser ci sarà almeno un metro di neve” sentenziò l’autista che apprezzò la collegiale decisione di lasciar perdere e di scendere alla Laguna Colorada. Fummo però costretti ad affrontare la prova delle raffiche di vento del colle. Piombammo di colpo, dalla relativa calma della collina che ci riparava, sotto bordate di vento di una violenza che non avevo mai visto, la jeep sembrava una barca in un mare in tempesta. Lo schianto del telone che copriva i bagagli sul tetto ci obbligò a fermarci per rimetterlo; era difficile stare in piedi ed il pulviscolo nevoso si infilava dappertutto : “ se c’è una cosa che non sopporto è la neve nel collo !” urlò Sato. Ma poi la tranquillità assoluta regnò alla Laguna Colorada. Essa giaceva in un grande avvallamento stepposo e grandi ciuffi erbosi puntinavano qua e là i bordi del cratere vulcanico che l’acqua aveva riempito in tempi lontani, una brillante spruzzata di neve copriva il terreno a macchia di leopardo. Le acque del lago si tinsero di rosso sfumato e la superficie si increspò lievemente sotto una brezza che era solo lontanamente il ricordo di quella furia là sopra. Più tardi uno sprazzo di luce bucò il cielo grigio e la laguna si accese. Su di un lato del lago sorgevano 4 o 5 case in pietra e mattoni di fango con tetto in lamiera, stradine fangose erano i boulevard di questo altipiano. Ci sistemammo per la notte in una di queste costruzioni, tutti in una stanza. Pensai che l’effetto stalla avrebbe aumentato la temperatura. Accendemmo la stufa e subito si diffuse il forte e gradevole odore resinoso della “llarreta” quando brucia. A quelle quote, dove non esistono alberi, non vi è altro combustibile. E’ una specie di muschio, a vederlo, che crescendo prende dimensioni notevoli e la resina che contiene la fa bruciare lentamente. Viene utilizzata soltanto quella che secca naturalmente, mentre quella verde è lasciata a rinvigorirsi per essere utilizzata di lì a qualche anno quando giungendo al termine del suo sviluppo seccherà. A volte vi sono blocchi talmente grandi e duri che occorre l’esplosivo per staccarli e la mazza per ridurli in pezzi. Il respiro un po’ difficoltoso non mi fece dormire molto bene ma comunque potei riposare al caldo e la mia notte si popolò di pensieri e sensazioni. La via per Uyuni era ancora lunga. Ci volle un giorno per scendere a San Josè ed un altro per  la piana di Uyuni, polverosa e fredda. Percorremmo una tortuosa pista che costeggiava stagni colorati e popolati da trampolieri rosa a pesca di gamberetti. Ci accompagnarono grandi cumuli bianchi appesi ad un cielo blu cobalto, non c’era vento, non c’era neve. Sato ebbe modo di disegnare i fenicotteri, ognuno a suo modo impresse quelle immagini che distanza di anni tutti certo ricorderemo. Il secondo giorno, dopo essere stati scortati da soldati armati all’interno della caserma che fungeva da posto di frontiera, attraversammo il più grande lago salato del mondo. Il Salar de Uyuni è una distesa di sale bianco abbacinante come il ghiaccio ed ospita al suo centro un isolotto roccioso, l’Isla Pescado, dalla forma di pesce appunto. Su di esso crescono decine di cactus a candelabro e dalla sua cima, in lontananza, nell’aria tremula, si scorgono rilievi che potrebbero anche essere miraggi. Alla sera, infine, Uyuni con le sue strade mal illuminate, un minestrone ed un po’ di riso dopo una doccia bollente. Viaggiai poi con Sato fino alla bellissima Potosì, a  4.900 metri, forse la città più alta della terra, e lì ci salutammo dividendoci. Passata una settimana, mentre mi godevo il tiepido clima di Sucre, la città bianca, lo incontrai tra le colonne barocche di una chiesa. Aveva comperato pastelli a cera ed io sfoggiavo il mio nuovo “borsalino” boliviano color grigio cenere, “molto elegante” mi disse abbracciandomi.