lunedì 27 novembre 2023

UN CURIOSO RITROVAMENTO

 

Leggo da Wikipedia: “La Rocca Tovo (2.298 m s.l.m.) è una montagna delle Alpi di Lanzo e dell'Alta Moriana nelle Alpi Graie. Si trova in Piemonte nelle Valli di Lanzo, in comune di Balme”. La sua cima si può raggiungere dal Pian della Mussa attraverso Pian Saulera con i sentieri 218 e 219 o direttamente da Balme attraverso Pian Giae con i sentieri 217 e 219. Il versante Est di questa montagna è occupato da un ampio vallone a tratti ripido che fino agli anni trenta/quaranta del novecento fu sfruttato come pascolo per gli animali, vi si trovano infatti i ruderi di Alpe Belvedere, Alpe Losasset e numerose balme con muretti in pietra. In seguito al definitivo abbandono risalente al dopoguerra, rododendri ed ontani hanno colonizzato l’intera area rendendo difficili gli spostamenti e la sopravvivenza di sentieri e tratturi usati nella monticazione. In questo groviglio di rigogliosa vegetazione estiva mi ritrovai nell'estate del 2021 insieme all’amico Gian Maria a vagabondare alla ricerca di un approccio alla parete est della Rocca per scalarla con una nuova via di roccia. Il caso però volle che per orientarci nel caos di radici e arbusti salissimo su un grande masso piatto alto circa due metri, in posizione un po’ isolata rispetto ad altri immersi nel verde. I nostri occhi erano più intenti a guardare verso l’alto che non sotto i nostri piedi dove poi osservammo dei curiosi buchi di varie dimensioni che ricoprivano l’intera superficie. Certamente scavati dalle mani dell’uomo, alcuni erano collegati tra loro da piccole canalette e un po’ ovunque contornati da lettere, nomi, date, croci, disegni di animali. Avevamo già visto qualcosa del genere su altri massi a Susa, a Gravere e a Reano. Poteva quel pietrone immerso nella boscaglia conservare un’eredità dei Celti e della sapienza druidica? La risposta non poteva competere a noi poco esperti di scienze paleontologiche e archeologiche. Un successivo sopralluogo di un funzionario della Soprintendenza stabilì che i petroglifi potevano essere collocati tra 400 e 500 anni avanti Cristo, dunque in piena espansione celtica. Nel corso dei secoli fu poi utilizzato dagli abitanti del posto soprattutto pastori, che trascorrendo ore a guardia degli animali, vi scolpirono date e nomi. L’incisione delle croci fu spesso richiesta dalla Chiesa per sradicare qualsiasi abitudine pagana di utilizzare le coppelle per riti di fertilità, prosperità e salute. Queste pratiche si protrassero per secoli nonostante la diffusione della liturgia cristiana che lentamente si sovrappose e le sostituì cambiando nomi, attori e scene ma conservando luoghi, date e periodi delle precedenti religioni. Nelle notti di luna piena continuò presumibilmente il culto di divinità che aveva mutato aspetto, ma di cui si cercavano comunque il favore e la benevolenza.

Per chi si facesse vincere dalla curiosità di vederlo occorrono pochi minuti fuori dal sentiero attraverso la vegetazione. Dal parcheggio del Pian della Mussa di fronte al ristorante Bricco, salire col sentiero 218 fino a Pian Saulera e poi 219 fino al colle del Tovo, scendere sull'altro versante fino a superare i ruderi dell'Alpe Losasset, continuare sul sentiero superando un evidente grande larice isolato e andando alla sua destra sempre in discesa raggiungere dopo un centinaio di metri un picchetto in legno bianco-rosso (un’ora circa). Il masso altare si trova a 90° da questo picchetto a una distanza di 70/80 metri, raggiungibile in modo un po' disagiato tra i rododendri. Posizione 45°17'42.08" 7°11'27.25", quota approssimativa metri 2101. Chissà che in futuro questa testimonianza della nostra storia non venga un po’ valorizzata magari  con un cartello esplicativo in modo che gli escursionisti su quei sentieri possano oltrechè pensare a camminare, camminare anche pensando a chi nei secoli ha calcato quelle rocce e quei passaggi, contribuendo a costruire quel patrimonio di eredità storica così importante.

 

giovedì 12 agosto 2021

Il mistero del signor H. K.

 “Keinwunder faceva tutto tranne la cosa più importante, non arrivava in cima. Arrivava a pochi metri dalla vetta, poi qualcosa lo tirava indietro, lo tirava giù. […]Nessuno ha mai capito perché, questo è il suo mistero, il suo paradosso. Quello che Keinwunder faceva era realizzare quello che tutti gli altrialpinisti vogliono evitare”.

In quella soffitta c’era di tutto. Per prima cosa la polvere la faceva da padrona, seppelliva ogni cosa ed era polvere d’annata o forse si sarebbe dovuto dire secolare. Giacevano ammonticchiati alla rinfusa oggetti tra i più svariati, una bicicletta arrugginita, un baule pieno di umili vestiti alcuni dei quali rattoppati, scarponi chiodati ormai rinsecchiti con la punta bucata, spalancata come una bocca famelica con denti di ferro. In un angolo, in equilibrio precario, stava appoggiata una “pajàssa ëd fer” con l’imbottitura squarciata, le molle sbilenche e ossidate e poi suppellettili buttate qua e là alla rinfusa. Una cassetta della frutta era piena di piatti scheggiati che rivelavano fiori dipinti da mani capaci, posate di ottone un po’ ricurve, pentolini di rame bucati o senza manico. Al centro della soffitta troneggiava uno specchio con piedistallo che aveva vissuto tempi sfarzosi a giudicare dalla bella cornice ormai tarlata, il vetro aveva perso gran parte dell’argentatura posteriore. In questo caos totale l’unico ordine sembrava riguardare una pila di libri e giornali ingialliti. Libri di scuola elementare, quaderni dalla copertina nera con i fogli bordati di rosso, fumetti di Mandrake e Topolino, quotidiani, riviste. Solo un quadernetto appariva diverso dagli altri per la forma e lo spessore che era vagamente simile alle agendine odierne, oltre a essere curioso per la forma lo era anche per il contenuto, era scritto in tedesco. Conteneva pezzi di pentagrammi musicali e testi di canzonette, appunti di viaggio, rappresentazioni grafiche di edifici di montagna piuttosto inverosimili, disegni e schizzi di montagne, valli, torrenti. Una pagina riportava: ”Balme ist ein nettes Dorf die Leute sind etwas mürrisch aber nett. Schönes und sonniges Wetter” a fianco comparivano considerazioni, abbozzi e testi di alcune sconvenienti canzoncine tirolesi adornate di fiori di genziana disegnati finemente, a piè di pagina vi erano come firma la sigla H. K. e il numero 19, poco leggibile poiché ormai semi cancellato dalle muffe, ma mancavano due cifre per formare la data completa. Gli amici chiamati a sgombrare la soffitta ci hanno consegnato il quadernetto pensando che si potessero ricavare informazioni da quella lingua estranea e chissà forse risalire al proprietario. La mente è allora subito corsa all’alpinista tirolese Herman Keinwunder, considerando anche la presenza accertata di abitanti di lingua tedesca, i Tirolesi, a Balme già nell’800 per la distillazione della genziana. Keinwunder? Proprio lui. Keinwunder è stato il più enigmatico e straordinario tra gli alpinisti, attivo negli anni cinquanta del secolo scorso, dotato di una classe purissima e di un’etica specchiata. Scalava cime per vie impervie e le discendeva sempre in arrampicata, non lasciava tracce del suo passaggio in parete. In ogni caso non raggiungeva mai la cima, ne era del tutto disinteressato, ben prima dei protagonisti del Nuovo Mattino torinese. Di lui si hanno notizie frammentarie e pochissimi appunti scritti in possesso d’impenetrabili personaggi che li custodiscono gelosamente nascosti. Chissà se il quadernetto della soffitta si collegava in qualche modo allo scalatore misterioso. Magari si era messo alla ricerca di vecchi legami familiari o da qualche parente aveva ricavato notizie sulla zona. Forse Keinwunder aveva voluto vedere con i propri occhi quell’angolo di Alpi Graie e le sue genti. Abbiamo esaminato a lungo una pagina che riportava anche il disegno accurato di una parete e alcune sommarie indicazioni di arrampicata. Da queste basi siamo partiti per la nostra avventura: la ricerca della via. L’abbiamo ripercorsa e scalata con l’utilizzo dei nostri metodi, certamente non ortodossi agli occhi di Herman, ma d’altronde noi non siamo fuoriclasse come lo era lui. Sicuri che non avremmo trovato segni materiali, ci siamo fatti guidare dagli appunti, dall’intuizione dettata dalla nostra esperienza alpinistica e dal profumo di genziana. Noi ci abbiamo provato. Abbiamo trovato il percorso giusto? Abbiamo ripetuto esattamente la via? Mah…chiedilo a Keinwunder. L’unico docufilm mai realizzato sul fortissimo scalatore tirolese è stato presentato nel 2014 al Film Festival di Trento con il titolo Chiedilo a Keinwunder ed è frutto dell’ingegno e della dedizione di Enrico Tavernini e Carlo Cenini. Si trova facilmente su YouTube in versione integrale. Ne consigliamo assolutamente la visione.



sabato 10 luglio 2021

1981 verso Katmandhu

“Hai trovato la bottiglia di acqua?” mi disse il piantone della sala d’attesa di seconda classe nella stazione di Benares. L’avevo cercata a lungo, aggirandomi per “la Platform 1”, in mezzo a tutti quei corpi distesi a terra  in attesa di chissà quale treno. Molti aspettavano certo un treno, qualcun altro semplicemente aveva trovato un posto per dormire al riparo dalla pioggia monsonica che quel giorno aveva battuto la città per diverse ore. L’aria si era rinfrescata notevolmente, Benares non era più quel posto caldissimo ed afoso di qualche giorno prima, pur rimanendo la temperatura sempre quella di una estate tropicale. Mentre  aspettavo il treno, mi tornavano in mente i giorni passati e nella pelle sentivo le sensazioni provate in luoghi diversi con gente diversa. Come al solito, all’imbrunire, mi prendeva quella nostalgia strana, triste e piacevole al tempo stesso. La voglia dei suoni del mio paese che non vedevo da anni, degli odori della cucina di mia madre. Quelle luci gialle della mia città, tutte quelle auto in fila ordinata e quasi silenziose sull’asfalto bagnato di pioggia autunnale; come erano diverse da quelle che percorrevano le vie delle megalopoli del terzo mondo in cui vivevo ormai da lungo tempo. Ero passato di continente in continente, come se non fossero staccati o separati da mari. No. Erano, per me,  quasi collegati da una lunga e sottile striscia sabbiosa sulla quale mi sembrava aver camminato. Tutto era una specie di unico stato universale, multilingue e multietnico. In buona sostanza i confini esistevano ancora… eccome! Polizie a presidiarli e regolamenti burocratici a rafforzarli. Dato comune erano le complicazioni formali ed i moduli da riempire: fogli a non finire, scritti, timbrati e controfirmati, che irrimediabilmente giacevano in cassetti mai vuotati oppure venivano dispersi dal turbinio d’aria di un ventilatore lanciato “a palla”. Sembrava quasi che quanto più un paese fosse  povero, tanto più burocrazia si inventasse per il semplice gusto, in apparenza, di complicarsi la vita. Complicarsi? Complicarla a quanti, cittadini o stranieri, avessero intenzione di passare quella striscia gialla che sul pavimento degli aeroporti delimita lo spazio tra il banco del funzionario ed il passaporto nella propria mano. Striscia gialla che può, paradossalmente, esemplificare la differenza economica tra stati, oppure abitudini generali di un popolo. Ad Hong Kong, Singapore, New York era perfetta, senza sbavature, per lo più di plastica termosaldata sui pavimenti gommosi… eterna. A Delhi era approssimativa, dipinta con vernice a due passate che, non combaciando, formavano ampie sbavature per tutta la lunghezza dando l’effetto di quel pressappochismo che distingue molto di quanto è di proprietà pubblica in India. Quante volte mi si ero scontrato, nel mio permanere in quel paese, con la burocrazia ed i regolamenti senza senso alcuno. Le cose più strane potevano accadere nella stessa stazione come ad esempio due depositi-bagaglio che osservavano orari così diversi da essere incomprensibili: uno aperto 24 ore su 24, l’altro con orari di chiusura da mezzanotte all’una, dalle otto alle nove e dalle sedici alle diciassette! Sovente avevo visto stramberie simili e mi ero adattato di fronte al sorriso ineffabile dell’addetto: “this is India , Sir”. A volte era stato un problema farsi cambiare un Travel-cheque dal solerte impiegato di banca: “firmi qua e metta la data” osservando attentamente e storcendo la bocca piena di Paan masticato  “ mi dia il passaporto, la firma non è uguale” “come sarebbe a dire che non è uguale ! ” “queste due firme sono diverse” “non è possibile sono entrambe mie !” “eppure sono diverse” “sono fatte a mano, non essendo stampate non possono essere perfettamente identiche” La frase l’avevo imparata nei bazar del paese quando, trovato un manufatto difettoso, i commercianti regolarmente tiravano fuori questa espressione per dare risalto all’artigianalità del pezzo. Di fronte a tanta sicurezza, il bancario, scuotendo il capo, non poteva fare altro che compilare i quattro moduli e mandare tutto alla cassa per il pagamento che avveniva dietro presentazione di contrassegno numerato inciso su di una placca di ottone lucidissima. Anche prendere il treno poteva riservare sorprese. Fu quanto mi successe mentre andavo a Katmandhu, la città dai 100 templi, viaggiando da Benares, la città dai 1000 templi. Avevo comperato un biglietto tramite un maneggione di un albergo. Era infatti difficile, in quel periodo, ottenere una cuccetta di seconda classe senza pagare un ”bakshish” all’impiegato della “ Indian Railway”. Una cuccetta in legno non imbottito e la prospettiva di 12 ore di viaggio era quanto avevo ottenuto. La stazione di Benares, la più sacra città induista, offriva lo spettacolo di tutte le stazioni indiane amplificato cento volte. Cumuli di corpi accampati, bambini, donne, Sadhu, storpi e lebbrosi, materassi, coperte ed in un angolo un corpo senza vita, coperto di ghirlande di fiori, in attesa di essere portato sulla riva del Gange ed ivi cremato sulle piattaforme dove ardono in continuazione le pire. Scene forti, cariche di umanità e drammaticità agli occhi di chi si accosta per la prima volta, per me rientravano nella normalità della  vita. Nel momento in cui il treno arrivò sul binario, l’aria si riempì di fumo nero ed acre. Lo stridore dei freni si mescolò alle voci dei venditori di thè “ciaiii, ciaiii”. Lentamente la folla si alzò dai giacigli improvvisati e cominciò a prendere posto nei vagoni: qui e là valigie, scatoloni, materassi arrotolati, su tutto galleggiava un bellissimo sitàr. Salii e mi addormentai quasi  subito nella cuccetta di terzo livello (in altezza); era ormai notte ed il pomeriggio seguente avrei raggiunto la cittadina di Raxaul e quindi l’attraversamento di un ponte mi avrebbe condotto alla  frontiera nepalese di Birgunj. Qualcosa però non funzionò. Mi svegliai all’alba in un treno fermo sui binari e completamente vuoto. Tutta quella moltitudine variopinta era di colpo evaporata. “siamo a Raxaul?” chiesi  “no” gli rispose un ferroviere in divisa “Raxaul è 200 km più avanti, ma il treno non va oltre, devi scendere” “ma io ho il biglietto fino a Raxaul” “la line ferroviaria è interrotta da due anni! Capisci… il monsone se la è portata via” “ ma perché mi hanno venduto un biglietto per un posto che non è raggiungibile?” “e chi lo sa, ti hanno fregato, ma non te la prendere…” Fuori dalla stazione numerosi “riksawali” aspettavano clienti da portare sul loro triciclo: “bus per la frontiera ! ” urlavano. Salii sul primo e fui condotto al “bus stand” dove appresi che nessun mezzo diretto era previsto per il Nepal; solo cambiando a Muzzafarpur e quindi compiendo un lungo giro, si arrivava in giornata a Raxaul. Ma ecco entrò in scena Michel, il parigino, spuntando dal nulla: “hei friend ! Forse riusciamo a prendere un mezzo, vieni !”. A quel punto  lo seguii sconcertato avendo in fondo piacere di dividere il tragitto con  un occidentale. Salimmo su di un autobus a dir poco pittoresco: struttura in legno, motore fumante, niente vetri, almeno cento passeggeri. “ dove ci sediamo?” “ roof,  roof ” indicò l’autista,  eggià… il tetto. Viaggiammo ore e dopo si e no 80 km il mezzo si fermò in un villaggetto sperduto tra le verdissime risaie del Bihar. Vidi allora la più spassosa scena degli ultimi tempi. C’era, sotto una tettoia sforacchiata, una bettola che serviva pasti. Come al solito nella parte anteriore era posto il grande forno in argilla refrattaria con grandi fori  in cui infilare i pentoloni, ebbene, tra un foro e l’altro stava seduto il cuoco  e tagliava le cipolle ! Per refrattaria che fosse l’argilla, la temperatura doveva esse altissima, ma costui se ne stava appollaiato con noncuranza intento nel suo lavoro, un po’ nero di fuliggine ma assolutamente a suo agio. Affettava le verdure con una mannaia affilatissima e guardava intorno con occhio burbero. Ramo era il suo nome. “too much” esclamai “too much”, una espressione molto un voga in quegli anni. L’ambiente era veramente… too much. “ chawal ? ” chiese Ramo “ah chawal” risposi scuotendo lievemente il capo a destra ed a sinistra per annuire. Avevo ordinato un piatto di riso ma non volevo assolutamente le verdure che galleggiavano in un intingolo rossastro. Non ci fu modo di far capire al torvo cuoco che volevo solo riso, la cosa suonava come terribile offesa alla di lui abilità culinaria e quindi mi vidi sbattere una mestolata di sugo nel piatto, “questo è il miglior curry della zona “ pareva dire Ramo guardando di traverso ingrugnito. Si rivelò tutto sommato niente male …l’intruglio. Nel frattempo, il problema era sempre quello di trovare un trasporto. Ancora una volta saltò fuori Michel accompagnato da due indiani che avendo una jeep erano disposti a portarci. Ma dove? Per strade polverose e dissestate viaggiammo veloci verso la frontiera… dodici dentro e due appesi fuori. “ c’est toutjour la galere !   commentò il parigino. Finalmente il posto di controllo di Birgunj. Una baracca di legno all’interno della quale due sorridenti militari nepalesi ci controllarono il passaporto e ci fecero pagare 10 dollari per il visto, alla fioca luce di una candela. Ingurgitai un “ciai” prima di crollare sul materasso, sotto la protezione di una zanzariera. L’odore di bucato del lenzuolo fu l’ultima cosa che percepii, inspirai profondamente e cominciai a sognare.

 


 

 

 

giovedì 1 luglio 2021

Sato

 Deserto di Atacama  -  Cile   1996  

"Sato, mi chiamo Sato, sono di Tokyo”

 “piacere di conoscerti, viaggi da lungo tempo ?”

”da oltre tre anni”

“mmm…a long ride”

“yes, yes, a very long ride”.

Stavamo nella stessa guest-house a San Pedro de Atacama, Cile del nord. Ci scambiammo queste poche parole mentre sistemavo le mie cose in una stanzetta che dava sul cortile dove Sato se ne stava tranquillamente seduto sotto un tiepido sole. Una sottile sigaretta gli pendeva dalle labbra, grandi occhiali da sole gli proteggevano gli occhi dagli u.v. dei 3500 metri di quota a cui ci trovavamo. Entrambe eravamo lì per vedere Atacama con le sue dune e laghi salati, eravamo lì per passare la Cordigliera delle Ande e scendere ad Uyuni in Bolivia. Io avevo intrapreso una lunga cavalcata di circa 4 mesi che dal Cile mi avrebbe portato ai Caraibi seguendo tutta la Cordigliera. Il mio viaggio appariva certamente, in confronto a ciò che stava facendo quel giapponese, una bazzecola, ma per me era già una grande opportunità. Preferiva farsi chiamare col cognome “il mio nome è Takeshi, ma spesso la gente confonde con Takashi ed allora… Sato è più facile oltre che breve. A Tokyo ero architetto, lavoravo come una bestia, facevo forse 10 giorni di vacanza all’anno, avevo la colite, la gastrite, la tachicardia e l’ansia. Pensai che dovevo fare qualcosa, cambiare qualcosa.Parlando col mio maestro Zen capii che dovevo dare un taglio netto alla mia vita. Mi licenziai dallo studio e partii per stare via sei mesi…ora sono qui. Ho tagliato definitivamente con la fidanzata, e molto probabilmente anche col Giappone, penso che non ci tornerò a vivere” La tranquillità ed il distacco con cui mi raccontò queste cose non lasciava dubbi sulla sua determinazione rispetto a questa scelta di vita. Stava cercando un luogo in cui vivere diversamente, mettendo a frutto le sue conoscenze ma senza esserne schiavo. Avevo incontrato, in vari angoli di questo mondo, viaggiatori a “lunga scadenza”, per così dire, due anni per l’ingegnere tedesco che partì da casa con due germanie  e si apprestava a ritornare in una unica, un anno e mezzo per la coppia di svizzeri che aveva attraversato l’Africa in bicicletta, sei mesi erano un tempo comune a molti viaggiatori ma tre anni e più era veramente tanto. Sato era una specie di macchina inarrestabile, aveva girato la Scozia in pieno inverno con un motorino, era caduto ammalato d’epatite in Egitto, in Costa Rica aveva avuto uno scontro fisico con due rapinatori e li aveva messi in fuga col nunchaku, due bastoni di circa 50 cm. uniti da una catena, che diventano, in mano a chi ne conosce l’uso, un’arma temibile e devastante.“il nunchaku lo porto sempre con me, ogni sera faccio gli esercizi, concentrazione, respirazione, rotazioni, parate, attacco, fa bene allo spirito ed al fisico” Ebbi modo di assistere a questi allenamenti per quel breve tratto di viaggio che facemmo insieme. La sera dopo cena, mi mostrò alcuni disegni e schizzi che aveva fatto viaggiando. Con la matita aveva tracciato decine di riproduzioni di facciate di palazzi antichi, chiostri di certose medioevali in Italia, colonne ed archi a Granada, statue indiane di Kajuraho, rovine Inca, montagne della California, paesaggi un po’ ovunque, in bianco e nero o a colori. Era una raccolta impressionante di colpi d’occhio, di ricordi e sensazioni, era il suo modo di raccontare ciò che aveva visto, di fermarlo per sempre. Lo vidi all’opera sull’altipiano, mentre, in brevissimo tempo, disegnò i trampolieri rosa che popolavano gli stagni d’alta quota, le lunghe gambe, i becchi ricurvi, quel loro movimento a scatti, i colpi di becco secchi e precisi, c’era tutto nel disegno di  Sato. A differenza del classico giapponese in giro per il mondo, Sato raramente scattava foto, non si lasciava dietro una scia di click, non dormiva con la Nikon, preferiva un altro genere, un genere, contemplativo, personale, per dirla colloquialmente, ci metteva del suo. Decidemmo in breve che saremmo andati al “valle de la luna” per vedere il plenilunio, bivaccando nel sacco a pelo in quella distesa di sabbia e dune spettrali sotto la fredda luce lunare. Ci accompagnò in auto e per pochi soldi,  un tizio di San Pedro con l’impegno di tornare il giorno seguente a riprenderci. Scaricammo la legna per il fuoco e l’attrezzatura per cucinare, congedammo l’autista e sistemammo le nostre cose in un anfratto di solida arenaria dove trovammo resti di passati addiacci.Avevamo appena acceso il fuoco e la legna aveva iniziato a scoppiettare scaldando intorno la fredda notte andina, quando avvertimmo il rumore di un motore e subito dopo due fari lacerarono il buio davanti alla nostra “residenza”, due belgi, lui e lei, si aggregarono a noi dopo aver accettato l’invito. Intorno al fuoco, l’uomo, da sempre, ha raccontato le sue storie, così facemmo noi. Le nostre vite scavalcarono le fiamme e si incrociarono sopra il fuoco, i nostri racconti fluirono amichevolmente ed a tratti le risate rompevano il profondo silenzio del luogo. La simpatia si era creata tra noi, corroborata ,ovvio dirlo, dalle due bottiglie di ottimo “ tinto de chile”. Scattò spontaneo l’applauso, quando Sato estrasse fulmineo dalla giacca una bottiglietta di acquavite, il classico coniglio dal cilindro, con tutto quel alcool…un coniglio al “civet”. Magicamente la luna fece la sua comparsa da dietro le nuvole e la valle si popolò di ombre che in movimento flessuoso seguivano le creste delle dune e si perdevano là dove non potevamo vedere per il buio. Jos, il belga, ululò, ma nessuno rise, ognuno era in preda ai propri pensieri, la malinconia invase il cuore di qualcuno, ma passò presto e fu cacciata da un ultimo sorso di vino. Il sole del mattino si levò dal bordo della gran duna che fronteggiava il nostro bivacco.Dapprima con qualche raggio ma poi pienamente e violentemente investì la nostra spelonca che si colorò di un rosso caldo e forte. Sull’arenaria rimbalzò il calore e ci preparò all’uscita dai sacchi a pelo. Avevamo dormito profondamente e c'eravamo persi l’alba “poco male” pensai e mi rigirai nel giaciglio, tanto valeva poltrire ancora un po’. Dalla cima della duna di fronte, Kato con ampi gesti e fischi ci invitò a raggiungerlo. Arrancammo nella sabbia fine, un metro su e mezzo giù, ma quando raggiungemmo il crinale il fiato lungo per la corsa mi si mozzò in gola. Davanti a me c’era una distesa di dune, canyon, valli, montagne a perdita d’occhio. Sfumature ocra con striature gialle bordavano i fianchi dei rilievi, il cielo già blu con striature bianche bordava la terra visibile e, lontano sulla destra, una montagna color mattone dominava sulle altre, un antico vulcano spento. “mon dieu !” disse Corinne sedendosi nella sabbia e cingendosi le ginocchia con le braccia, le si inumidirono gli occhi. La bellezza del mondo era lì davanti a noi. Uno spazio che pareva non avere fine. Girandomi a 360° m' accorsi che dovunque c’era una grandiosità senza fine, anche nei granelli di sabbia anche nelle piccole cose, i granelli di sabbia così insignificanti singolarmente presi e così importanti nel costituire quella massa di montagne multicolori. Passammo due giorni dopo il nostro ritorno in allegria ed amicizia in giro per bettole e locali di San Pedro, dove gli stranieri si mescolavano ai cileni in serate di brindisi e schiamazzi. Partimmo dunque per la Bolivia. La strada sterrata che da San Pedro saliva al confine ad oltre 4.000 metri, era dominata dalla possente mole del Licancabur, la sua forma tronco-conica non lasciava dubbi sull’origine vulcanica. La sua cima ospitava, a  quota 5.920, il lago più alto della terra e con la caratteristica di non gelare mai nonostante la temperatura raggiunga i 25-30 sottozero. Si dice gli antichi abitanti della zona (gli insediamenti raggiungevano i 4.500 metri) lo usassero come luogo di avvistamento e controllo. Nuvole scure, durante il nostro passaggio, coprivano, a tratti, la cima e rendevano il paesaggio cupo e misterioso, sotto di esse le acque della Laguna Verde lambivano le radici del vulcano. Questa “Laguna” era un lago circolare le cui acque, di un vivido color verde dato da minerali di rame in esse disciolto, erano bordate da una curiosa schiuma biancastra mossa e spinta a riva dalle onde, producendo un effetto stupefacente non appena il sole riprendeva spazio e cambiava la luminosità del giorno. Giungemmo dunque ad un avamposto militare boliviano. Due piccoli soldati infreddoliti intorno alla stufa ci sorrisero guardando i nostri passaporti: “Il posto di polizia è giù a San Josè, sul “salar”, lì vi porranno il timbro, per noi potete passare”. “Jovenes quieren un mate?” disse la mamìta uscendo da una capanna lì a fianco. Era una donna dall’età incerta, viveva lì cucinando per i soldati e per chi attraversava. ”Ogni 3 mesi scendo ad Uyuni, mi scaldo un po’, fa così freddo quassù e poi c’è il soroche, il mal di montagna, a volte è così forte che neanche le foglie me lo levano”.              Si riferiva alle foglie della coca. Questa pianta sacra alle popolazioni delle Ande, produce molti benefici a chi vive sull’altipiano: attenua gli effetti del soroche, diminuisce i morsi della fame e masticata insieme alla calce, oltre a devastare bocca e denti, produce un po’ di energia, un po’ di forza per andare avanti anche mangiando poco. Memore di altri viaggi, ne comprai un sacchetto ed iniziai a masticare (senza calce !) e di lì ad un’ora il mal di testa si attenuò, le tempie smisero di battere , respirai meglio nell’aria rarefatta. Non eravamo molto acclimatati per cui ogni cosa lassù era pesante, bisognava muoversi lentamente e dosare gli sforzi. Il cielo era a tratti un misto di latte e carbone a strisce. La jeep cilena ci lasciò , insieme ai nostri bagagli, in consegna a quella boliviana che era venuta su da Uyuni e subito la moglie dell’autista ci preparò dei panini al prosciutto, si avvicinava mezzogiorno. Non potei mandare giù che due bocconi, ripresi a masticare la “oja”. Nella jeep, oltre a Sato, a me ed ai belgi, vi erano due ragazze australiane, una delle quali di origine italiana. Ci rivelammo essere un gruppo cordiale ed affiatato. L’automezzo procedeva sulla pista sabbiosa puntando ad alcuni rilievi rocciosi all’orizzonte. Tutto intorno, il paesaggio era mutato, mentre la parte cilena era per lo più brughiera e pietraia stepposa, quella boliviana era desertica e secca. Il vento, anche in presenza di sole, ci obbligava a vestire maglione e giacca a vento. Sostammo presso una sorgente di acqua calda. Alla sua base si era formata una piscinetta dentro cui solamente Sato ebbe il coraggio di buttarsi dopo essersi spogliato ad una temperatura esterna forse sotto zero. Sguazzò come un germano migrante per un po’ di tempo e quindi uscì ad asciugarsi tremando come una foglia sotto le folate di vento. Sentii freddo a guardarlo. Gli affioramenti di acque calde sono piuttosto comuni in aree vulcaniche ed il nostro prossimo obiettivo erano proprio dei “geyser” a 4.900 metri. Raggiungemmo i rilievi che vedevamo da circa mezz’ora sullo sfondo. Erano delle enormi rocce completamente erose e tafonate dall’azione congiunta di vento e sabbia. Gli elementi avevano formato delle curiose sculture multiformi, le guardai con occhio da scalatore, sarebbe stato molto bello salirle. Il tempo peggiorò. Il cielo si fece, da lattiginoso che era, sempre più buio e la jeep avanzava nella sabbia senza difficoltà. D’improvviso una tempesta di neve con forte vento ci piombò addosso, i fiocchi cadevano intensamente ed in meno di mezz’ora la neve raggiunse 30-40 cm. L’automezzo cominciò ad avere qualche problemuccio…ed anche l’autista il quale cercava di orientarsi nella foschia totale. Di tanto in tanto apriva il finestrino per vedere meglio cercando di trovare un riferimento in una roccia, in un avvallamento :”Conosco bene la zona, vengo quassù da quasi due anni, tutte le settimane”  “ No hay problema “, queste parole mi rincuorarono, non mi sarebbe piaciuto perdermi e dover bivaccare lassù nella gelida lamiera della Toyota. La moglie era molto meno tranquilla, sorrideva nonostante dimostrasse un’aria preoccupata. Accadde ciò che doveva. la Toyota si infossò, le ruote scavarono una profonda buca e sprofondarono nella neve, ci fermammo sulla pista, in salita. “oh my god, oh my god” ripeteva l’australiana, visibilmente impaurita. Cercai di smorzare la tensione: “ eh eh  in Australia non nevica, vero?, vedrai ci leveremo d’impaccio in breve”. L’autista ci passò le pale mentre continuava a nevicare ma il vento era diminuito e la temperatura accettabile per il luogo in cui ci trovavamo. Si scavò e si spinse, ognuno per parte sua, alla fine, tutto sommato facilmente, in una mezz’oretta ne venimmo fuori, dopo esserci “piantati” un altro paio di volte. “Lassù ai geyser ci sarà almeno un metro di neve” sentenziò l’autista che apprezzò la collegiale decisione di lasciar perdere e di scendere alla Laguna Colorada. Fummo però costretti ad affrontare la prova delle raffiche di vento del colle. Piombammo di colpo, dalla relativa calma della collina che ci riparava, sotto bordate di vento di una violenza che non avevo mai visto, la jeep sembrava una barca in un mare in tempesta. Lo schianto del telone che copriva i bagagli sul tetto ci obbligò a fermarci per rimetterlo; era difficile stare in piedi ed il pulviscolo nevoso si infilava dappertutto : “ se c’è una cosa che non sopporto è la neve nel collo !” urlò Sato. Ma poi la tranquillità assoluta regnò alla Laguna Colorada. Essa giaceva in un grande avvallamento stepposo e grandi ciuffi erbosi puntinavano qua e là i bordi del cratere vulcanico che l’acqua aveva riempito in tempi lontani, una brillante spruzzata di neve copriva il terreno a macchia di leopardo. Le acque del lago si tinsero di rosso sfumato e la superficie si increspò lievemente sotto una brezza che era solo lontanamente il ricordo di quella furia là sopra. Più tardi uno sprazzo di luce bucò il cielo grigio e la laguna si accese. Su di un lato del lago sorgevano 4 o 5 case in pietra e mattoni di fango con tetto in lamiera, stradine fangose erano i boulevard di questo altipiano. Ci sistemammo per la notte in una di queste costruzioni, tutti in una stanza. Pensai che l’effetto stalla avrebbe aumentato la temperatura. Accendemmo la stufa e subito si diffuse il forte e gradevole odore resinoso della “llarreta” quando brucia. A quelle quote, dove non esistono alberi, non vi è altro combustibile. E’ una specie di muschio, a vederlo, che crescendo prende dimensioni notevoli e la resina che contiene la fa bruciare lentamente. Viene utilizzata soltanto quella che secca naturalmente, mentre quella verde è lasciata a rinvigorirsi per essere utilizzata di lì a qualche anno quando giungendo al termine del suo sviluppo seccherà. A volte vi sono blocchi talmente grandi e duri che occorre l’esplosivo per staccarli e la mazza per ridurli in pezzi. Il respiro un po’ difficoltoso non mi fece dormire molto bene ma comunque potei riposare al caldo e la mia notte si popolò di pensieri e sensazioni. La via per Uyuni era ancora lunga. Ci volle un giorno per scendere a San Josè ed un altro per  la piana di Uyuni, polverosa e fredda. Percorremmo una tortuosa pista che costeggiava stagni colorati e popolati da trampolieri rosa a pesca di gamberetti. Ci accompagnarono grandi cumuli bianchi appesi ad un cielo blu cobalto, non c’era vento, non c’era neve. Sato ebbe modo di disegnare i fenicotteri, ognuno a suo modo impresse quelle immagini che distanza di anni tutti certo ricorderemo. Il secondo giorno, dopo essere stati scortati da soldati armati all’interno della caserma che fungeva da posto di frontiera, attraversammo il più grande lago salato del mondo. Il Salar de Uyuni è una distesa di sale bianco abbacinante come il ghiaccio ed ospita al suo centro un isolotto roccioso, l’Isla Pescado, dalla forma di pesce appunto. Su di esso crescono decine di cactus a candelabro e dalla sua cima, in lontananza, nell’aria tremula, si scorgono rilievi che potrebbero anche essere miraggi. Alla sera, infine, Uyuni con le sue strade mal illuminate, un minestrone ed un po’ di riso dopo una doccia bollente. Viaggiai poi con Sato fino alla bellissima Potosì, a  4.900 metri, forse la città più alta della terra, e lì ci salutammo dividendoci. Passata una settimana, mentre mi godevo il tiepido clima di Sucre, la città bianca, lo incontrai tra le colonne barocche di una chiesa. Aveva comperato pastelli a cera ed io sfoggiavo il mio nuovo “borsalino” boliviano color grigio cenere, “molto elegante” mi disse abbracciandomi.

 

 


 

 

lunedì 31 maggio 2021

Un piede in tante scarpe

Le prime scalate le feci con un paio di pesanti scarponi Asolo ai piedi, avevano la classica suola di gomma scolpita Vibram. Inizio estate del 1975, sullo Spigolo Boccalatte alla Torre Germana eravamo un gruppetto di cinque o sei, mentre io mi dovevo concentrare sulla punta degli scarponi appoggiandola bene sugli appigli perché non scivolasse, gli altri che avevano delle scarpette leggere mi sembravano salire con meno fatica e più eleganza. Capii che forse era meglio cambiare le calzature. Approfittando della generosità di un amico che aveva smesso di arrampicare, accettai in dono le sue Galibier “RR” (Royal Robbins) usate poche volte. Si trattava di scarpe in pelle con suola tipo Vibram, leggere e ben calzanti. Esteticamente bruttine per il royal blue della tomaia che strideva con il rosso brillante delle stringhe, sulla roccia consentivano una sensibilità maggiore degli scarponi in particolare nell’uso del bordo interno (edging). Le avevo viste, in alcuni film, ai piedi degli scalatori californiani che salivano tra folate di vento patagonico o sulle lisce pareti di Yosemite. Loro, icone dell’arrampicata di allora, le usavano sul FizRoy o El Capitan, io le avrei usate molto ma molto più modestamente sulle montagne di casa nostra. Le utilizzai effettivamente molto in quell’anno quando le scalate si fecero numericamente maggiori fino a consumarne la suola, benché fosse duretta. Nella nuova stagione del 1977 mi trovai una domenica ad arrampicare sulla Via Balzola alla Torre Castello. I miei due soci sfoggiavano fiammanti scarpette di acceso colore arancio a suola liscia e per tutta la salita non fecero altro che magnificarne la leggerezza e la duttilità. Il lunedì decisi dunque di superare le Colonne d’Ercole del Vibram e mi fiondai in un negozio di articoli sportivi sperando di scoprire un nuovo mondo. Mi procurai un paio di Brixia a suola liscia con tomaia in cotone blu e rinforzi per punta e tallone in similpelle rossa. Ansioso di provarle subito, combinai una scalata infrasettimanale alla Rocca Sbarua dove salii la Gervasutti e la Vena di Quarzo. Le nuove scarpette passarono la prova e mi convinsi di aver fatto una buona scelta. Le Brixia si alternarono con le RR fino a che un bel giorno si sfasciarono sotto un pesante acquazzone che le aveva imbevute, ma soprattutto aveva macerato il sottopiede di cartone pressato. Buttai le Brixia, misi definitivamente in pensione le RR e passai a una scarpa più performante ma non sapevo ancora quanto dolorosa! Acquistai la famosa “EB SuperGratton”. Questa scarpa fu davvero innovativa per la scalata di precisione sui piccoli appigli. Era un’evoluzione della Galibier “PA”, ideata da Pierre Allain, scalatore parigino. Costui negli anni ’50 aveva realizzato un prototipo correntemente chiamato varappe (scalata in francese) adatto ai massi di Fontainebleau. Le EB (Emile Bourdonneau) erano diventate nella seconda metà degli anni ’70 le migliori del mercato. Esse avevano anche un altro “pregio”: facevano un male cane poiché la loro forma non seguiva granché l’anatomia del piede, particolarmente il mio. La tomaia era costituita da due strati di tela inframmezzati da uno di gomma per rendere la struttura più rigida e sostenere la caviglia, con il risultato di non fare traspirare il piede. Alla fine degli anni ’70, Asolo confezionò la “Canyon” con la collaborazione tecnica di Yvon Chouinard. La scarpa ebbe un discreto successo soprattutto per la comodità della calzata. Un mio caro amico che la possedeva ci si trovò benissimo e fece molte vie dichiarandosi sempre soddisfatto, sia in aderenza (friction) sia in incastro (jamming), io perseverai con le dolorose EB. E siamo così ai primi anni ’80, periodo importante per l’evoluzione dell’arrampicata e dei suoi attrezzi tecnici. San Marco, conosciuta casa di scarponi, mise in vendita un modello innovativo realizzato da Patrick Berhault, una scarpetta in scamosciato nero con rinforzi gialli, alta sulla caviglia, molto precisa e calzante come un guanto. Mi comprai le “Berhault”. Erano favolose, morbide, fascianti, mi fecero dimenticare le pene delle EB ma, non potendo ovviamente andare sempre tutto bene, si ruppero molto presto. La pelle con cui erano fatte, forse per il tipo di concia, si tagliò dopo un breve uso e nonostante un tentativo di cucitura del calzolaio di fiducia finì per stracciarsi completamente. Fu una delusione, anche per il costo non indifferente. Uscì in quel periodo la Boreal “Fire”. Non era molto fasciante né comoda ma possedeva una suola detta Goma Cocida con un’aderenza così prodigiosa da strabiliare tutti. Non la provai mai di persona ma i giudizi di tanti erano lusinghieri. A me sembrava una scarpaccia dalla forma indefinita e la mia valutazione forse un po’ tranciante non mi convinse mai a spendere una lira per averla. Per andare in Calanques, presso Marsiglia, mi ero fornito di un paio di La Sportiva “Mariacher” (Heinz Mariacher), scarpette viola e gialle a collo alto. Ricordo bene a Morgiou, splendida insenatura mediterranea, una via che iniziava con un lungo muro verticale a piccole tacche, una sequenza piuttosto intensa, dove la tecnica di piedi poteva fare la differenza. Le Mariacher fecero il loro dovere alla grande. La Sportiva stava iniziando quella produzione di alta qualità che continua tutt’oggi. Vorrei citare una bizzarria di quegli anni come La Sportiva “Ambidestra”, targata Manolo, protagonista insieme a Mariacher dell’evoluzione dell’arrampicata. Nata per ovviare al fatto che la suola si consuma generalmente solo nella parte interna della calzatura mentre quella esterna rimane quasi intatta. Era una scarpa da indossare indifferentemente a destra o a sinistra, peccato che il piede umano abbia una forma che non può, per fortuna, essere modificata da un manufatto. Finirono per essere scarpe poco precise sia con la suola nuova sia consumata e messa a piede invertito, il problema non ebbe dunque soluzione. Nel 1982, immortalate nel film Opera Vertical, fecero la loro comparsa le Dolomite “Edlinger” (Patrick Edlinger), si trattava di scarpe un po’ rigide di colore nero e granata, di ottima precisione in particolare su tacche nette ma la punta un po’ grossa era limitante per l’uso nei buchi, non ideali in aderenza pura. A dire il vero, l’autore poteva anche farne a meno come si può vedere in fotografia. Toccò poi alle Valdor “Paragot” (Robert Paragot), le uniche della storia con la suola bianca, non erano malaccio, erano comode, avevano buona aderenza in placca e abbastanza precise su piccoli appoggi, costituirono una meteora e come tale scomparvero filando velocemente. Il 1988 fu l’anno de La Sportiva “Mega” che naturalmente comprai. Era una scarpetta meno flessibile di altre, dalla buona calzata e con una forma del tallone che non mi consentiva però di avere una buona fasciatura, andavano bene ma io prediligevo una scarpa più morbida e per questo motivo comprai le One Sport azzurre e rosa che avevano... un’intersuola in lamierino! Avevo sbagliato tutto, mi sembrava di scalare con gli scarponi, mi facevano un male bestia e non le trovavo per nulla confortevoli, le regalai. Erano state molto pubblicizzate da immagini dell’avvenente C. Destivelle la quale si faceva ritrarre in pose plastiche penzolando da un tetto o mentre superava in foot-hook pronunciati strapiombi. Devo dire che dalle Mariacher in poi solo il modello La Sportiva “Futura” mi soddisfece in toto prima di arrivare a La Sportiva “Mythos”, all’inizio degli anni ’90. Le Futura (nulla a che vedere con le odierne) avevano una trovata curiosa: la suola era doppia nella parte anteriore in modo che risuolandole non occorresse aprire la scarpa e si potesse sostituire solo la suola superiore la quale doveva, gioco forza, essere sottile consumandosi in verità troppo velocemente. Un modello simile alla Mythos lo fece la spagnola Boreal e lo chiamò “Aces” dal disegno dei quattro assi di carte che recava sul fianco, colori nero e verde brillante. Erano belle scarpe e a detta di chi le ebbe, molto comode e versatili. Le Mythos sono a oggi le mie preferite per le lunghe vie di montagna, comode e precise quando sono nuove, tendono, però, ad allargarsi e allungarsi con successive risuolature. Si tratta di una scarpa polivalente per difficoltà medio - alte su ogni tipo di roccia. Dopo oltre vent’ anni è tuttora in produzione e per l’anniversario ne è stato fatto un modello di diverso colore e più compatto nella struttura, limitato numericamente a 1991 esemplari come l’anno della sua uscita, le mie sono il n° 1618. A cavallo del 2000 provai tre scarpe di ottimo livello: La Sportiva “Miura” e “Katana”, FiveTen “Anazasi” (con l’ottima suola Stealth). Queste ultime mi procurarono qualche doloroso problemino sulle pareti del Verdon una delle prime volte che le usai. Ricordo che salii l’ultima lunghezza di una via con le scarpette sfilate dal tallone usandole a mo’ di ciabatta tra imprecazioni di vario genere e subendo lo smacco di farmi lanciare una corda dall’alto. Avrete certamente capito, se già non lo sapevate, che gli scalatori hanno molteplici motivazioni a essere pignoli nella scelta di una scarpa. A conclusione di tutto si può dire che la tendenza attuale è possedere scarpe diverse e specifiche per il terreno che si affronta: boulder, sintetico, vie lunghe in montagna, vie di più tiri in bassa quota, falesia, calcare, granito ecc. Siamo dunque col racconto ai giorni nostri e mi fermo qui. Lungi da me tentare di fare una storia esauriente delle scarpette da scalata né tantomeno stabilire una scala di valori, ho semplicemente cercato di raccontare, attraverso l’esperienza personale, circa quarant’anni di evoluzione tecnica fatta “con i piedi”.



Il Cieco, lo Zoppo e lo Sbadato

Come una cordata assortita affrontò una giornata di dolomia

Autunno in bassa Val d’Aosta, è una bella giornata di sole e sono con Riccardo e Wolfango. Mentre mi accingo a salire il primo tiro di una via esclamo ”Abbiamo riformato il trio dello Spigolo del Velo” ed Riccardo di rimando ”Il cieco, lo zoppo e lo sbadato”. In una calda giornata estiva dell'anno precedente eravamo partiti sull’ammiraglia di Wolf alla volta di San Martino di Castrozza per una tre giorni alle Pale, obiettivo scalare il famosissimo Spigolo del Velo alla Cima della Madonna e qualcos'altro in zona. Da tempo volevo salire la meraviglia verticale del Velo, conosciuta come una delle più belle scalate dolomitiche, roccia incredibilmente solida e quasi intatta nonostante le migliaia di ripetizioni dal 1920, anno della sua apertura. Ne avevo parlato con Lucia e Giorgio, i pistoiesi con cui avevo condiviso molte scalate, tutte le estati erano in zona col loro gruppo di running ma la cosa non era andata a buon fine. Avevo interpellato allora Riccardo pur sapendo che non lo ispiravano né la roccia né la chiodatura dolomitica (quando c’era). Senza grande entusiasmo si disse disponibile, presumo più per amicizia che per vero interesse. Durante i preparativi mi giunse una telefonata dello stesso che mi comunicava la richiesta di aggregarsi avanzata da Wolf, nonostante fosse un po' claudicante per un recente problema al ginocchio. Erre mi disse che non gli piacevano le cordate a tre, che la via era abbastanza lunga e che avremmo impiegato troppo tempo, ma comunque lasciava a me la patata bollente della decisione. Nonostante Riccardo avesse ragione, mi dispiaceva dire di no a Wolf, sarebbe stato un po’ come imputargli il fatto di rallentare la cordata (non sia mai!) e allora dissi di sì. Ci mettemmo in autostrada e via verso le Pale di San Martino. Giungemmo dunque a Malga Zivertaghe dove si lascia l’auto per salire al rifugio. In previsione di più di una giornata di scalate, mi ero portato due paia di scarpe, un paio più comode per i quattrocento metri dello Spigolo e un altro più strette ma anche più precise per la seconda salita. Preparammo gli zaini, scarpette, imbrago, moschettoni, cordini, borraccia, sapete come va in questi casi, tutto diventa automatico, forse troppo. Ci sistemammo al rifugio e dopo una buona cena andammo a dormire presto. Per l’indomani le previsioni meteo erano buone e lo spirito alto, recita la retorica in questi casi. Al mattino, sotto un cielo terso, ci attendeva un avvicinamento di trenta minuti, il rifugio è infatti quasi piantato nella radice della Cima e raggiungere la partenza dello Spigolo è di fatto un gioco da ragazzi. Con un breve tratto di ferrata si giunge alla grossa clessidra rocciosa indicata come partenza della via, lì ci si imbraga e ci si lega alla corda. Perfetto, vi giunsi per primo, tirai fuori la corda dallo zaino, misi l’imbragatura e cercai le scarpette per calzarle ma mi accorsi che avevo due sinistre. “Porca p... possiedo due paia di Mythos e forse perché mal riposte nell’armadio ho preso due scarpe uguali” commentai borbottando. Affranto, appoggiai la testa alla roccia, avevo fatto quattrocentocinquanta chilometri per quella via e adesso ero lì sconfortato e arrabbiato. Intanto mi raggiunse Riccardo che vedendomi in quello stato ”Stai male?” mi chiese “No, ho due scarpe sinistre, sono proprio uno scemo, vabbè andate su voi io mi farò un giro”. A questo punto trionfò un senso di amicizia solidale, sapendo quanto ci tenessi a fare la via, mi fu proposto di scendere alla macchina, di prendere le altre scarpe (ero certo che fossero una destra e una sinistra) e di risalire al rifugio, la via l’avremmo fatta il giorno seguente. Ed eccoci al giorno seguente, all’attacco infilai una Mythos nel piede sinistro (non si rinuncia facilmente alla comodità) e una Katana nel destro sperando che non mi facesse male poiché un po’ stretta. Il cielo non era più sgombro come la mattinata precedente, striature grigie si allungavano sull’orizzonte, l’azzurro era un po’ slavato, “Sperùma bin” dissi attaccando il pilastrino iniziale. I tiri scorrevano, la roccia era in effetti molto bella, la chiodatura scarsa ma le difficoltà abbordabili permettevano di salire con discreta sicurezza e così tiro dopo tiro ci innalzammo, io continuai a condurre lodando la qualità della roccia, l’eleganza della scalata ma lamentandomi dei chiodi arrugginiti e delle soste mal sicure secondo i miei standard che non sono certo quelli dolomitici. Eravamo già molto in alto e la progressione era regolare ma non delle più veloci, la temperatura era fresca tanto da richiedere maglione e kway per godere di un certo confort. A un certo punto Wolf espresse il desiderio di passare a condurre qualche lunghezza ma Riccardo fu perentorio: “No no, continua lui che ormai ha preso il giro, non rallentiamo” il silenzio che seguì fu molto chiaro nel significato, continuai io come capocordata. A due tiri dalla vetta iniziarono a cadere gocce di pioggia miste a palline di ghiaccio ma sulla piatta terrazza, dove hanno fine le difficoltà, comparve per un attimo un timido sole. In cima dopo la “doverosa” stretta di mano, ci avviammo per una esigua cresta a prendere le calate in doppia sul versante opposto. Il piccolo sole cedette il posto alla nebbia che in breve si impossessò di tutta la montagna impedendo la visuale oltre i tre, quattro metri e fu la nebbia stessa la protagonista del prosieguo. Le calate avvenivano lungo il camino Winkler, una spaccatura di circa cinquanta metri salita nel 1886 dallo straordinario scalatore tedesco senza alcuna protezione, incastrandosi dentro e con gli scarponi chiodati. Oggi è gradata di quarto, figurarsi alla fine dell’ottocento che cosa significasse. Ma torniamo alla nostra discesa, due doppie ci depositarono su una cengia di sfasciumi, a tratti scendeva una pioggerellina fine, bisognava porre estrema attenzione nel muoversi su quel terreno infido e per giunta immerso nella nebbia. Giungemmo così alla doppia che porta al colletto da cui s’imbocca il canalone finale per raggiungere i ghiaioni basali e di lì il rifugio. Scese prima Riccardo, che in quella giornata era un po’ innervosito da un problema a un occhio e rispondeva seccamente alle domande; incolpevolmente fece una doppia obliqua per raggiungere direttamente il colletto ma capì che poi sarebbe stato difficile recuperare le corde per cui consigliò di fare una doppia verticale e poi risalire al luogo dove era arrivato lui con le corde. Fu dunque il turno di Wolf che lamentandosi per il fatto che in basso c’era della neve residua, iniziò anche lui a scendere con una doppia obliqua facendo imbufalire non poco Riccardo e venendosi a trovare in una situazione complicata con le corde che tiravano e impedivano lo scorrimento del discensore “ Ma cosa c... fai? ” lo apostrofò Riccardo “Eh…non so” “ Ma come non sai, come sei messo?” “Eh come sono messo…né carne e né pesce”. “ Nè carne né pesce? Ma cosa vuol dire? Wolfango non ti sopporto ” urlò Riccardo “Sei pedante e noioso oltre che testardo”. Incastrato sotto una sporgenza rocciosa per ripararmi dalla pioggia, legato ai chiodi della sosta, dall'alto assistei allo spassoso siparietto e non seppi proprio trattenere una risata sincera. La situazione era assurda e divertente al tempo stesso. Alla fine Wolf in qualche modo raggiunse la postazione di Riccardo il quale sembrava fumare dall’incazzatura. Dalla nicchia in cui  ero rintanato evitai di parlare e scesi in doppia finendo con i piedi nel nevaio per poi camminare fino ai due litiganti che nel frattempo continuavano la discussione. “Va bene Wolfango scusami” “ Non ti preoccupare, siamo amici da lungo tempo e poi ci sono abituato fin da bambino quando mia madre mi sgridava, facevo finta di niente” “ Ma cosa c’entra tua madre adesso? Vuoi dire che fai finta di niente quando ti dico qualcosa? Vabbè lasciamo perdere e leviamoci di qua”. Il terreno era sempre piuttosto insidioso e la nebbia non si diradava, procedevo in discesa cercando gli ancoraggi delle doppie e di tanto in tanto udivo un richiamo dei soci che nonostante avessi una giacca gialla non mi vedevano. Il problema di Riccardo all’occhio si acuiva con la poca visibilità “Renato dove sei passato?” “ Sono sceso dritto ma non saprei come spiegarti” “ Ah beh, grazie dell’aiuto” “ No, non volevo dire…” decisi di lasciar perdere per non aumentare il tasso di nervosismo del gruppo. Dopo diverse doppie e tratti percorsi a piedi, numerosi chiodi e cordini ci indicarono un grosso ancoraggio sul bordo di un salto verticale e presumibilmente piuttosto alto, guardando in basso si vedeva infatti solo uno strato lattiginoso qualche metro sotto noi. Riccardo scese usando una sola corda, scomparendo nella nebbia per trenta metri “Non vedo la sosta e sono in piena parete verticale, adesso mi sistemo sopra uno spuntone ma non sono messo bene”. La situazione era un po’ complessa, non aveva visto l’ancoraggio successivo o questo non era a trenta metri? L’unica soluzione logica era legare le due corde e scendere per sessanta metri per avere a disposizione una calata lunga, una sosta da qualche parte l’avremmo ben trovata. Il difficile fu a quel punto vincere la caparbietà di Wolf assolutamente convinto com’era che Riccardo fosse in errore dato che tutte le calate precedenti erano state di trenta metri “Scendi da trenta vedrai che la trovi, è Riccardo che l’ha ciccata” mi disse “Ma se scendiamo da sessanta in ogni caso o la troviamo a trenta o tutt'al più scendo finchè ho corda e una sosta ci dovrà pur essere, con la calata lunga siamo sicuri” replicai. A me il ragionamento sembrava filasse ma pareva non convincere completamente Wolf che solo dopo un lungo e riflessivo silenzio cedette “Va bene, lega le due corde”. Cominciai a scendere e raggiunsi Riccardo che con un sorriso stiracchiato mi guardò standosene appollaiato su una specie di prua che fuoriusciva dalla parete, era al sicuro ma comodo non di certo. Decisi che non era dunque il caso di condividere quel trespolo, gli passai le corde perché le tenesse vicine per poi usarle quando fosse stato il suo turno e continuai a calare nella nebbia più fitta. A un tratto sentii però qualcosa di strano sotto la scarponcino destro, non vi badai più di tanto filando lungo le corde verso il basso. A oltre cinquanta metri di discesa atterrai su una terrazza abbastanza ampia, scrutai in giro ma non vidi chiodi o cordini, nulla, la nebbia continuava a essere spessa, tutt'intorno un velo grigiastro mi avvolgeva, improvvisamente ci fu uno squarcio brevissimo, “Porco boia” esclamai, per un attimo vidi che i ghiaioni erano solo cinque metri sotto di me, eravamo arrivati, intravidi nella pietraia il solco del sentiero prima che tutto si richiudesse. In breve fui raggiunto e ci incamminammo. Eravamo stati in ballo per circa undici ore, eravamo stati lenti ma in fondo non ci importava, lo spigolo era fatto. Mentre camminavo, mi accorsi che una scarpa aveva la suola scollata, ecco cos’era quella sensazione strana, continuai caracollando sulle ghiaie, “Domani per scendere ti presto il nastro delle dita, potrai avvolgere la scarpa, ma non consumarne troppo” sentenziò Riccardo in tono scherzoso. La signora del rifugio ci disse che era un po’ in ansia per noi sapendo che la discesa era complessa con la nebbia soprattutto per chi non la conosce, “In qualche modo ce la caviamo sempre” esclamò qualcuno di noi facendo emergere dalla stanchezza fisica e mentale un po’ di gagliardo spirito di tempi andati. Poi furono una minestra calda, una fetta di torta e brindisi con una bottiglia di vino. Attraverso la finestra si vedevano le luci nella valle, il buio abbracciò le montagne, era ora di andare. Buonanotte.


 

 

Ritorno al Verdon

Per il ponte di Giugno le previsioni erano ottime, non restava che fare lo zaino e partire. Ero finalmente riuscito a combinare per il Verdon. Ero contento, mancavo dalla zona, per arrampicarci, da quasi dieci anni. Vi ero stato da non molto ma solo per fare un giro a piedi sul Sentiero Martel e per me non è proprio la stessa cosa sebbene le “gorges” sappiano offrire spettacolo per qualsiasi attività vi si faccia, anche solo guardare questa meraviglia geologica. La prima cosa che colpisce quando si scende in Provenza è il colore della luce, proprio quello che ci stava accompagnando sulle tortuose strade, contornate da coltivazioni di lavanda, che portano a Moustiers-Sainte-Marie. Un bel borgo di circa 600 abitanti, arroccato sulle pendici di alte torri calcaree che è così descritto in un sito web turistico: “Village cramponné au pied de falaise tout en haut du Lac de Sainte Croix, à l’entrée du grand canyon du Verdon”. Arrivati dunque a La Palud, solo 300 abitanti, ma vero cuore pulsante del Verdon, ci installammo nella gîte L’Escalès gestita da Matia, moglie di Patrick Edlinger morto nel 2012 in un banale incidente domestico. Avevamo in programma alcune vie consigliate da guide cartacee e vari siti internet. Il primo giorno si è sempre indecisi se fare qualche tiretto di assaggio o calarsi in doppia e darsi da fare su quel calcare così compatto, definito da M. Bernardi nella sua guida del 1987, il più bello del mondo. Eh già, per arrampicare in questo luogo, occorre spesso fare il contrario di quanto si fa in genere. Prima si scende e poi si risale, facendo bene attenzione a essere in grado di scalare l’itinerario prescelto poiché le vie di fuga non sempre esistono e pur essendo l’ambiente fantastico, non è certo confortevole né onorevole passare una notte là sotto aspettando i soccorsi. A volte la discesa è fino in fondo al canyon, in prossimità del Sentiero Martel, a volte le doppie finiscono su una terrazza alberata, una stretta cengia o in piena parete su due ancoraggi uniti da una catena (ad esempio Rêve de fer o L’ange en décomposition). Le terrazze portano nomi come Jardin des Ecureuils, Jardin de la Marcellin, Jardin des suisses (i fratelli Remy), Jardin de bananes e visti dal basso appaiono come grovigli di alberi avvinghiati alle pareti. La mia esperienza in quest’angolo di Francia, si limita a una quindicina di vie per lo più le grandi “classiche”, ma per chi è in grado di scalare a livelli molto alti, le forti difficoltà unite alla grande esposizione nel vuoto formano un cocktail micidiale. A ogni buon conto certe vertiginose calate in corda doppia (come quelle di Luna Bong, che fecero dire a Marco Troussier, quando le fece su chiodi e cordini: “J'étais vert“) lasciano sempre un qualcosa dentro che non svanisce subito anche con la decennale abitudine a certe manovre. Un capitolo a parte lo valgono i nomi strampalati delle vie. Oggi siamo piuttosto abituati a bizzarrie ma fino a tutti gli anni ‘70 si era legati alla compostezza di: diedro grigio, fessura gialla, diedro rosso, placche striate, strapiombo nero oppure al nome degli apritori o quello di un amico, magari scomparso. In Verdon comparvero nomi veramente divertenti che possiamo per gioco catalogare in: parole composte o neologismi, Troglobule (trop+globules), Dingomaniaque, Durendalle e Footcroute (football+chocroute, dedicata agli alsaziani), Caca Boudin, Spitofage Pervers; fanta-horror-thriller, Golem, Cthuluh, Necronomicon, Massacre à la tronçonneuse, Necropolis, Le toboggan de la mort; a rima baciata, La vache qui tache, Manu ribdu, Ticket pour un tacquet, La dalle du clou qui rend fou; botta e risposta, La Demande, L’Offre, Toujoursjamè, Toujourplusprés, Polpot, Polpet, Mort à Venice, Mort subite, Miss canyon, Miss tourbillon; deciso e perentorio, Take or leave it, Pas de panique, Alerte au gaz, Surveiller et punir, Sérieux s’abstenir; paradisiaci, La douce sublimation, Patience dans l’azur, Troisiéme ciel, Èperon sublime; acronimi, ORNI (Object-Rampant-Non-Identifié), TNT; nomi di animali, Ula (una cagnetta tedesca), Pichenibule (una pecora provenzale), Arabe dément (un gatto). Giacchè, in un celebre articolo su una rivista specializzata, gli scalatori che si cimentarono per primi su quelle vertiginose rocce furono definiti “un groupe des fous mèridionaux”, non potevano allora mancare i nomi dedicati alla follia come Au delà du délire, Delirium très mince, Le fou d’artifice, Le moroir du fou. I nomi hanno quasi tutti un doppio senso e spesso si riferiscono a situazioni createsi durante l’apertura. Mi sento di consigliare la lettura di Quei pazzi del Verdon di B. Vaucher, racconto di una “banda d’illuminati”, un gruppo di amici con tutte le loro avventure verticali. Un libro che oltre a contenere alcuni capitoli esilaranti, è importante per capire un’epopea che riguardò tutta l’Europa posando le vere e proprie basi dell’arrampicata sportiva. Tornando alla nostra permanenza, decidemmo di “buttarci” su Saut d’homme sperando di non essere troppo coerenti con il nome. Questa via consta di quattro tiri per una lunghezza totale di circa 150 metri e segue la linea di un grande diedro-fessura in roccia gialla e grigia. Si tratta di una scalata molto ripetuta e questo poteva presagire la presenza di roccia lucidata dai numerosi passaggi, ma in ogni caso avevamo preso la decisione. La prima calata fu senza difficoltà, ma la seconda naturalmente ci offrì un bell’incastro di nodo per la delizia di dover risalire la corda con manovre varie e poco piacevoli. Fortuna volle che una cordata inglese che scendeva dopo di noi ci facesse scorrere il nodo oltre il punto d’incastro e fummo salvi potendo recuperare le corde e arrivare alla piccola terrazza alberata, sospesa sulla parete, da dove ebbe inizio la scalata. Fu subito fessura da tirare con forza, dülfer e incastro, ehmmm…la chiodatura? Pareva buona e i punti di protezione non troppo distanziati, sempre comunque “stile Verdon”. Intanto un grosso grifone ci teneva compagnia volando sopra di noi e sfruttava silenziosamente le correnti ascensionali per controllare il canyon alla ricerca di cibo. Arrivai dunque al terzo tiro che dalla sosta appariva come una lunga e giallastra fessura, “Mi sembra un affare rognoso” dichiarai sorridendo e cercando di prenderla allegramente, m’impegnai deciso utilizzando anche il famoso “renfougne”, incastro di una parte del corpo che striscia un po’ dentro la spaccatura mentre l’altra parte sta fuori in cerca di appigli buoni per piedi e mani. Dopo un discreto sforzo venni a capo del tiro e mi ritrovai, prima della sosta, ad aggirare un robusto ginepro fenicio abbarbicato nella fessura, uno dei tanti di queste pareti, il più famoso dei quali è “l’arbre de Coriolis” sulla via Mangoustine, addirittura millenario. Alla fine della scalata, immerso nei bossi del pianoro sommitale, liberatomi di scarpette imbrago e corda, commentai che era stato proprio bello lasciarsi attrarre dall’ambiente verticale del canyon. I giorni successivi ci regalarono panorami da cartolina sul Lago di Sainte Croix, vedute mozzafiato delle gole mentre percorrevamo brevi tragitti in auto per raggiungere i punti di partenza. Una panoramica strada ci condusse al cosiddetto Chalet de la Maline. Anche se l’eleganza della parola francese evoca per noi costruzioni montane di pregio, si tratta in realtà di un rifugio del CAF, da cui si può scendere a piedi nel canyon. Il nostro obiettivo era scalare la via Free Tibet. Seguendo la descrizione scaricata in rete, raggiungemmo l’attacco. Un tiro obliquo ci portò alla prima sosta, la gradazione ci parve severa. Il secondo tiro coincideva solo parzialmente con quanto riportato sul foglio, mancava un breve traverso verso destra e quindi una sosta su un grande ginepro secco che non poteva passare inosservato, pensammo a una inesattezza. Il terzo tiro era un traverso a destra e combaciava con la relazione, ma le difficoltà sembravano essere più alte di quelle dichiarate, pensammo di essere scarsi. Una cordata che incautamente ci seguiva fidandosi forse della nostra convinzione, abbandonò e scese in doppia, pensammo che stesse forse facendo la cosa giusta. Il quarto tiro partiva obliquo a sinistra mentre la relazione parlava di andare a destra, commentammo come certuni non conoscano la differenza tra destra e sinistra, passi impegnativi mi portarono alla sosta. Il quinto tiro saliva su per un pilastro “supergaz” di cui non vi era menzione, cominciammo ad avere dei dubbi. Fummo infine su una grande cengia al termine della via. Il rientro era indicato da ometti in pietra verso sinistra, la relazione parlava di andare a destra, smettemmo di farci domande e ci incamminammo verso la Maline. Nessuno degli scalatori che incontrammo nella serata fu in grado di delucidarci e solo al nostro ritorno a casa, internet chiarì che avevamo fatto un’altra via, aperta da poco e più dura del nostro obiettivo iniziale. In ogni caso ce l’eravamo cavata con un impegno maggiore, con qualche tratto al limite del volo, un po’ di timore ma senza pericoli. Così passarono sei giorni scalando, chiacchierando davanti a una birra a Lou Cafetie, ascoltando le spassose litanie del proprietario di Le Tilleul-crêperie tibétaine, mangiando le insalatone nel giardino di Joe Le Snacky, respirando il profumo dei sacchettini di erbe provenzali e portandoci a casa, insieme alle belle sensazioni, i barattoli di miele alla lavanda.