giovedì 1 luglio 2021

Sato

 Deserto di Atacama  -  Cile   1996  

"Sato, mi chiamo Sato, sono di Tokyo”

 “piacere di conoscerti, viaggi da lungo tempo ?”

”da oltre tre anni”

“mmm…a long ride”

“yes, yes, a very long ride”.

Stavamo nella stessa guest-house a San Pedro de Atacama, Cile del nord. Ci scambiammo queste poche parole mentre sistemavo le mie cose in una stanzetta che dava sul cortile dove Sato se ne stava tranquillamente seduto sotto un tiepido sole. Una sottile sigaretta gli pendeva dalle labbra, grandi occhiali da sole gli proteggevano gli occhi dagli u.v. dei 3500 metri di quota a cui ci trovavamo. Entrambe eravamo lì per vedere Atacama con le sue dune e laghi salati, eravamo lì per passare la Cordigliera delle Ande e scendere ad Uyuni in Bolivia. Io avevo intrapreso una lunga cavalcata di circa 4 mesi che dal Cile mi avrebbe portato ai Caraibi seguendo tutta la Cordigliera. Il mio viaggio appariva certamente, in confronto a ciò che stava facendo quel giapponese, una bazzecola, ma per me era già una grande opportunità. Preferiva farsi chiamare col cognome “il mio nome è Takeshi, ma spesso la gente confonde con Takashi ed allora… Sato è più facile oltre che breve. A Tokyo ero architetto, lavoravo come una bestia, facevo forse 10 giorni di vacanza all’anno, avevo la colite, la gastrite, la tachicardia e l’ansia. Pensai che dovevo fare qualcosa, cambiare qualcosa.Parlando col mio maestro Zen capii che dovevo dare un taglio netto alla mia vita. Mi licenziai dallo studio e partii per stare via sei mesi…ora sono qui. Ho tagliato definitivamente con la fidanzata, e molto probabilmente anche col Giappone, penso che non ci tornerò a vivere” La tranquillità ed il distacco con cui mi raccontò queste cose non lasciava dubbi sulla sua determinazione rispetto a questa scelta di vita. Stava cercando un luogo in cui vivere diversamente, mettendo a frutto le sue conoscenze ma senza esserne schiavo. Avevo incontrato, in vari angoli di questo mondo, viaggiatori a “lunga scadenza”, per così dire, due anni per l’ingegnere tedesco che partì da casa con due germanie  e si apprestava a ritornare in una unica, un anno e mezzo per la coppia di svizzeri che aveva attraversato l’Africa in bicicletta, sei mesi erano un tempo comune a molti viaggiatori ma tre anni e più era veramente tanto. Sato era una specie di macchina inarrestabile, aveva girato la Scozia in pieno inverno con un motorino, era caduto ammalato d’epatite in Egitto, in Costa Rica aveva avuto uno scontro fisico con due rapinatori e li aveva messi in fuga col nunchaku, due bastoni di circa 50 cm. uniti da una catena, che diventano, in mano a chi ne conosce l’uso, un’arma temibile e devastante.“il nunchaku lo porto sempre con me, ogni sera faccio gli esercizi, concentrazione, respirazione, rotazioni, parate, attacco, fa bene allo spirito ed al fisico” Ebbi modo di assistere a questi allenamenti per quel breve tratto di viaggio che facemmo insieme. La sera dopo cena, mi mostrò alcuni disegni e schizzi che aveva fatto viaggiando. Con la matita aveva tracciato decine di riproduzioni di facciate di palazzi antichi, chiostri di certose medioevali in Italia, colonne ed archi a Granada, statue indiane di Kajuraho, rovine Inca, montagne della California, paesaggi un po’ ovunque, in bianco e nero o a colori. Era una raccolta impressionante di colpi d’occhio, di ricordi e sensazioni, era il suo modo di raccontare ciò che aveva visto, di fermarlo per sempre. Lo vidi all’opera sull’altipiano, mentre, in brevissimo tempo, disegnò i trampolieri rosa che popolavano gli stagni d’alta quota, le lunghe gambe, i becchi ricurvi, quel loro movimento a scatti, i colpi di becco secchi e precisi, c’era tutto nel disegno di  Sato. A differenza del classico giapponese in giro per il mondo, Sato raramente scattava foto, non si lasciava dietro una scia di click, non dormiva con la Nikon, preferiva un altro genere, un genere, contemplativo, personale, per dirla colloquialmente, ci metteva del suo. Decidemmo in breve che saremmo andati al “valle de la luna” per vedere il plenilunio, bivaccando nel sacco a pelo in quella distesa di sabbia e dune spettrali sotto la fredda luce lunare. Ci accompagnò in auto e per pochi soldi,  un tizio di San Pedro con l’impegno di tornare il giorno seguente a riprenderci. Scaricammo la legna per il fuoco e l’attrezzatura per cucinare, congedammo l’autista e sistemammo le nostre cose in un anfratto di solida arenaria dove trovammo resti di passati addiacci.Avevamo appena acceso il fuoco e la legna aveva iniziato a scoppiettare scaldando intorno la fredda notte andina, quando avvertimmo il rumore di un motore e subito dopo due fari lacerarono il buio davanti alla nostra “residenza”, due belgi, lui e lei, si aggregarono a noi dopo aver accettato l’invito. Intorno al fuoco, l’uomo, da sempre, ha raccontato le sue storie, così facemmo noi. Le nostre vite scavalcarono le fiamme e si incrociarono sopra il fuoco, i nostri racconti fluirono amichevolmente ed a tratti le risate rompevano il profondo silenzio del luogo. La simpatia si era creata tra noi, corroborata ,ovvio dirlo, dalle due bottiglie di ottimo “ tinto de chile”. Scattò spontaneo l’applauso, quando Sato estrasse fulmineo dalla giacca una bottiglietta di acquavite, il classico coniglio dal cilindro, con tutto quel alcool…un coniglio al “civet”. Magicamente la luna fece la sua comparsa da dietro le nuvole e la valle si popolò di ombre che in movimento flessuoso seguivano le creste delle dune e si perdevano là dove non potevamo vedere per il buio. Jos, il belga, ululò, ma nessuno rise, ognuno era in preda ai propri pensieri, la malinconia invase il cuore di qualcuno, ma passò presto e fu cacciata da un ultimo sorso di vino. Il sole del mattino si levò dal bordo della gran duna che fronteggiava il nostro bivacco.Dapprima con qualche raggio ma poi pienamente e violentemente investì la nostra spelonca che si colorò di un rosso caldo e forte. Sull’arenaria rimbalzò il calore e ci preparò all’uscita dai sacchi a pelo. Avevamo dormito profondamente e c'eravamo persi l’alba “poco male” pensai e mi rigirai nel giaciglio, tanto valeva poltrire ancora un po’. Dalla cima della duna di fronte, Kato con ampi gesti e fischi ci invitò a raggiungerlo. Arrancammo nella sabbia fine, un metro su e mezzo giù, ma quando raggiungemmo il crinale il fiato lungo per la corsa mi si mozzò in gola. Davanti a me c’era una distesa di dune, canyon, valli, montagne a perdita d’occhio. Sfumature ocra con striature gialle bordavano i fianchi dei rilievi, il cielo già blu con striature bianche bordava la terra visibile e, lontano sulla destra, una montagna color mattone dominava sulle altre, un antico vulcano spento. “mon dieu !” disse Corinne sedendosi nella sabbia e cingendosi le ginocchia con le braccia, le si inumidirono gli occhi. La bellezza del mondo era lì davanti a noi. Uno spazio che pareva non avere fine. Girandomi a 360° m' accorsi che dovunque c’era una grandiosità senza fine, anche nei granelli di sabbia anche nelle piccole cose, i granelli di sabbia così insignificanti singolarmente presi e così importanti nel costituire quella massa di montagne multicolori. Passammo due giorni dopo il nostro ritorno in allegria ed amicizia in giro per bettole e locali di San Pedro, dove gli stranieri si mescolavano ai cileni in serate di brindisi e schiamazzi. Partimmo dunque per la Bolivia. La strada sterrata che da San Pedro saliva al confine ad oltre 4.000 metri, era dominata dalla possente mole del Licancabur, la sua forma tronco-conica non lasciava dubbi sull’origine vulcanica. La sua cima ospitava, a  quota 5.920, il lago più alto della terra e con la caratteristica di non gelare mai nonostante la temperatura raggiunga i 25-30 sottozero. Si dice gli antichi abitanti della zona (gli insediamenti raggiungevano i 4.500 metri) lo usassero come luogo di avvistamento e controllo. Nuvole scure, durante il nostro passaggio, coprivano, a tratti, la cima e rendevano il paesaggio cupo e misterioso, sotto di esse le acque della Laguna Verde lambivano le radici del vulcano. Questa “Laguna” era un lago circolare le cui acque, di un vivido color verde dato da minerali di rame in esse disciolto, erano bordate da una curiosa schiuma biancastra mossa e spinta a riva dalle onde, producendo un effetto stupefacente non appena il sole riprendeva spazio e cambiava la luminosità del giorno. Giungemmo dunque ad un avamposto militare boliviano. Due piccoli soldati infreddoliti intorno alla stufa ci sorrisero guardando i nostri passaporti: “Il posto di polizia è giù a San Josè, sul “salar”, lì vi porranno il timbro, per noi potete passare”. “Jovenes quieren un mate?” disse la mamìta uscendo da una capanna lì a fianco. Era una donna dall’età incerta, viveva lì cucinando per i soldati e per chi attraversava. ”Ogni 3 mesi scendo ad Uyuni, mi scaldo un po’, fa così freddo quassù e poi c’è il soroche, il mal di montagna, a volte è così forte che neanche le foglie me lo levano”.              Si riferiva alle foglie della coca. Questa pianta sacra alle popolazioni delle Ande, produce molti benefici a chi vive sull’altipiano: attenua gli effetti del soroche, diminuisce i morsi della fame e masticata insieme alla calce, oltre a devastare bocca e denti, produce un po’ di energia, un po’ di forza per andare avanti anche mangiando poco. Memore di altri viaggi, ne comprai un sacchetto ed iniziai a masticare (senza calce !) e di lì ad un’ora il mal di testa si attenuò, le tempie smisero di battere , respirai meglio nell’aria rarefatta. Non eravamo molto acclimatati per cui ogni cosa lassù era pesante, bisognava muoversi lentamente e dosare gli sforzi. Il cielo era a tratti un misto di latte e carbone a strisce. La jeep cilena ci lasciò , insieme ai nostri bagagli, in consegna a quella boliviana che era venuta su da Uyuni e subito la moglie dell’autista ci preparò dei panini al prosciutto, si avvicinava mezzogiorno. Non potei mandare giù che due bocconi, ripresi a masticare la “oja”. Nella jeep, oltre a Sato, a me ed ai belgi, vi erano due ragazze australiane, una delle quali di origine italiana. Ci rivelammo essere un gruppo cordiale ed affiatato. L’automezzo procedeva sulla pista sabbiosa puntando ad alcuni rilievi rocciosi all’orizzonte. Tutto intorno, il paesaggio era mutato, mentre la parte cilena era per lo più brughiera e pietraia stepposa, quella boliviana era desertica e secca. Il vento, anche in presenza di sole, ci obbligava a vestire maglione e giacca a vento. Sostammo presso una sorgente di acqua calda. Alla sua base si era formata una piscinetta dentro cui solamente Sato ebbe il coraggio di buttarsi dopo essersi spogliato ad una temperatura esterna forse sotto zero. Sguazzò come un germano migrante per un po’ di tempo e quindi uscì ad asciugarsi tremando come una foglia sotto le folate di vento. Sentii freddo a guardarlo. Gli affioramenti di acque calde sono piuttosto comuni in aree vulcaniche ed il nostro prossimo obiettivo erano proprio dei “geyser” a 4.900 metri. Raggiungemmo i rilievi che vedevamo da circa mezz’ora sullo sfondo. Erano delle enormi rocce completamente erose e tafonate dall’azione congiunta di vento e sabbia. Gli elementi avevano formato delle curiose sculture multiformi, le guardai con occhio da scalatore, sarebbe stato molto bello salirle. Il tempo peggiorò. Il cielo si fece, da lattiginoso che era, sempre più buio e la jeep avanzava nella sabbia senza difficoltà. D’improvviso una tempesta di neve con forte vento ci piombò addosso, i fiocchi cadevano intensamente ed in meno di mezz’ora la neve raggiunse 30-40 cm. L’automezzo cominciò ad avere qualche problemuccio…ed anche l’autista il quale cercava di orientarsi nella foschia totale. Di tanto in tanto apriva il finestrino per vedere meglio cercando di trovare un riferimento in una roccia, in un avvallamento :”Conosco bene la zona, vengo quassù da quasi due anni, tutte le settimane”  “ No hay problema “, queste parole mi rincuorarono, non mi sarebbe piaciuto perdermi e dover bivaccare lassù nella gelida lamiera della Toyota. La moglie era molto meno tranquilla, sorrideva nonostante dimostrasse un’aria preoccupata. Accadde ciò che doveva. la Toyota si infossò, le ruote scavarono una profonda buca e sprofondarono nella neve, ci fermammo sulla pista, in salita. “oh my god, oh my god” ripeteva l’australiana, visibilmente impaurita. Cercai di smorzare la tensione: “ eh eh  in Australia non nevica, vero?, vedrai ci leveremo d’impaccio in breve”. L’autista ci passò le pale mentre continuava a nevicare ma il vento era diminuito e la temperatura accettabile per il luogo in cui ci trovavamo. Si scavò e si spinse, ognuno per parte sua, alla fine, tutto sommato facilmente, in una mezz’oretta ne venimmo fuori, dopo esserci “piantati” un altro paio di volte. “Lassù ai geyser ci sarà almeno un metro di neve” sentenziò l’autista che apprezzò la collegiale decisione di lasciar perdere e di scendere alla Laguna Colorada. Fummo però costretti ad affrontare la prova delle raffiche di vento del colle. Piombammo di colpo, dalla relativa calma della collina che ci riparava, sotto bordate di vento di una violenza che non avevo mai visto, la jeep sembrava una barca in un mare in tempesta. Lo schianto del telone che copriva i bagagli sul tetto ci obbligò a fermarci per rimetterlo; era difficile stare in piedi ed il pulviscolo nevoso si infilava dappertutto : “ se c’è una cosa che non sopporto è la neve nel collo !” urlò Sato. Ma poi la tranquillità assoluta regnò alla Laguna Colorada. Essa giaceva in un grande avvallamento stepposo e grandi ciuffi erbosi puntinavano qua e là i bordi del cratere vulcanico che l’acqua aveva riempito in tempi lontani, una brillante spruzzata di neve copriva il terreno a macchia di leopardo. Le acque del lago si tinsero di rosso sfumato e la superficie si increspò lievemente sotto una brezza che era solo lontanamente il ricordo di quella furia là sopra. Più tardi uno sprazzo di luce bucò il cielo grigio e la laguna si accese. Su di un lato del lago sorgevano 4 o 5 case in pietra e mattoni di fango con tetto in lamiera, stradine fangose erano i boulevard di questo altipiano. Ci sistemammo per la notte in una di queste costruzioni, tutti in una stanza. Pensai che l’effetto stalla avrebbe aumentato la temperatura. Accendemmo la stufa e subito si diffuse il forte e gradevole odore resinoso della “llarreta” quando brucia. A quelle quote, dove non esistono alberi, non vi è altro combustibile. E’ una specie di muschio, a vederlo, che crescendo prende dimensioni notevoli e la resina che contiene la fa bruciare lentamente. Viene utilizzata soltanto quella che secca naturalmente, mentre quella verde è lasciata a rinvigorirsi per essere utilizzata di lì a qualche anno quando giungendo al termine del suo sviluppo seccherà. A volte vi sono blocchi talmente grandi e duri che occorre l’esplosivo per staccarli e la mazza per ridurli in pezzi. Il respiro un po’ difficoltoso non mi fece dormire molto bene ma comunque potei riposare al caldo e la mia notte si popolò di pensieri e sensazioni. La via per Uyuni era ancora lunga. Ci volle un giorno per scendere a San Josè ed un altro per  la piana di Uyuni, polverosa e fredda. Percorremmo una tortuosa pista che costeggiava stagni colorati e popolati da trampolieri rosa a pesca di gamberetti. Ci accompagnarono grandi cumuli bianchi appesi ad un cielo blu cobalto, non c’era vento, non c’era neve. Sato ebbe modo di disegnare i fenicotteri, ognuno a suo modo impresse quelle immagini che distanza di anni tutti certo ricorderemo. Il secondo giorno, dopo essere stati scortati da soldati armati all’interno della caserma che fungeva da posto di frontiera, attraversammo il più grande lago salato del mondo. Il Salar de Uyuni è una distesa di sale bianco abbacinante come il ghiaccio ed ospita al suo centro un isolotto roccioso, l’Isla Pescado, dalla forma di pesce appunto. Su di esso crescono decine di cactus a candelabro e dalla sua cima, in lontananza, nell’aria tremula, si scorgono rilievi che potrebbero anche essere miraggi. Alla sera, infine, Uyuni con le sue strade mal illuminate, un minestrone ed un po’ di riso dopo una doccia bollente. Viaggiai poi con Sato fino alla bellissima Potosì, a  4.900 metri, forse la città più alta della terra, e lì ci salutammo dividendoci. Passata una settimana, mentre mi godevo il tiepido clima di Sucre, la città bianca, lo incontrai tra le colonne barocche di una chiesa. Aveva comperato pastelli a cera ed io sfoggiavo il mio nuovo “borsalino” boliviano color grigio cenere, “molto elegante” mi disse abbracciandomi.

 

 


 

 

Nessun commento:

Posta un commento