sabato 10 luglio 2021

1981 verso Katmandhu

“Hai trovato la bottiglia di acqua?” mi disse il piantone della sala d’attesa di seconda classe nella stazione di Benares. L’avevo cercata a lungo, aggirandomi per “la Platform 1”, in mezzo a tutti quei corpi distesi a terra  in attesa di chissà quale treno. Molti aspettavano certo un treno, qualcun altro semplicemente aveva trovato un posto per dormire al riparo dalla pioggia monsonica che quel giorno aveva battuto la città per diverse ore. L’aria si era rinfrescata notevolmente, Benares non era più quel posto caldissimo ed afoso di qualche giorno prima, pur rimanendo la temperatura sempre quella di una estate tropicale. Mentre  aspettavo il treno, mi tornavano in mente i giorni passati e nella pelle sentivo le sensazioni provate in luoghi diversi con gente diversa. Come al solito, all’imbrunire, mi prendeva quella nostalgia strana, triste e piacevole al tempo stesso. La voglia dei suoni del mio paese che non vedevo da anni, degli odori della cucina di mia madre. Quelle luci gialle della mia città, tutte quelle auto in fila ordinata e quasi silenziose sull’asfalto bagnato di pioggia autunnale; come erano diverse da quelle che percorrevano le vie delle megalopoli del terzo mondo in cui vivevo ormai da lungo tempo. Ero passato di continente in continente, come se non fossero staccati o separati da mari. No. Erano, per me,  quasi collegati da una lunga e sottile striscia sabbiosa sulla quale mi sembrava aver camminato. Tutto era una specie di unico stato universale, multilingue e multietnico. In buona sostanza i confini esistevano ancora… eccome! Polizie a presidiarli e regolamenti burocratici a rafforzarli. Dato comune erano le complicazioni formali ed i moduli da riempire: fogli a non finire, scritti, timbrati e controfirmati, che irrimediabilmente giacevano in cassetti mai vuotati oppure venivano dispersi dal turbinio d’aria di un ventilatore lanciato “a palla”. Sembrava quasi che quanto più un paese fosse  povero, tanto più burocrazia si inventasse per il semplice gusto, in apparenza, di complicarsi la vita. Complicarsi? Complicarla a quanti, cittadini o stranieri, avessero intenzione di passare quella striscia gialla che sul pavimento degli aeroporti delimita lo spazio tra il banco del funzionario ed il passaporto nella propria mano. Striscia gialla che può, paradossalmente, esemplificare la differenza economica tra stati, oppure abitudini generali di un popolo. Ad Hong Kong, Singapore, New York era perfetta, senza sbavature, per lo più di plastica termosaldata sui pavimenti gommosi… eterna. A Delhi era approssimativa, dipinta con vernice a due passate che, non combaciando, formavano ampie sbavature per tutta la lunghezza dando l’effetto di quel pressappochismo che distingue molto di quanto è di proprietà pubblica in India. Quante volte mi si ero scontrato, nel mio permanere in quel paese, con la burocrazia ed i regolamenti senza senso alcuno. Le cose più strane potevano accadere nella stessa stazione come ad esempio due depositi-bagaglio che osservavano orari così diversi da essere incomprensibili: uno aperto 24 ore su 24, l’altro con orari di chiusura da mezzanotte all’una, dalle otto alle nove e dalle sedici alle diciassette! Sovente avevo visto stramberie simili e mi ero adattato di fronte al sorriso ineffabile dell’addetto: “this is India , Sir”. A volte era stato un problema farsi cambiare un Travel-cheque dal solerte impiegato di banca: “firmi qua e metta la data” osservando attentamente e storcendo la bocca piena di Paan masticato  “ mi dia il passaporto, la firma non è uguale” “come sarebbe a dire che non è uguale ! ” “queste due firme sono diverse” “non è possibile sono entrambe mie !” “eppure sono diverse” “sono fatte a mano, non essendo stampate non possono essere perfettamente identiche” La frase l’avevo imparata nei bazar del paese quando, trovato un manufatto difettoso, i commercianti regolarmente tiravano fuori questa espressione per dare risalto all’artigianalità del pezzo. Di fronte a tanta sicurezza, il bancario, scuotendo il capo, non poteva fare altro che compilare i quattro moduli e mandare tutto alla cassa per il pagamento che avveniva dietro presentazione di contrassegno numerato inciso su di una placca di ottone lucidissima. Anche prendere il treno poteva riservare sorprese. Fu quanto mi successe mentre andavo a Katmandhu, la città dai 100 templi, viaggiando da Benares, la città dai 1000 templi. Avevo comperato un biglietto tramite un maneggione di un albergo. Era infatti difficile, in quel periodo, ottenere una cuccetta di seconda classe senza pagare un ”bakshish” all’impiegato della “ Indian Railway”. Una cuccetta in legno non imbottito e la prospettiva di 12 ore di viaggio era quanto avevo ottenuto. La stazione di Benares, la più sacra città induista, offriva lo spettacolo di tutte le stazioni indiane amplificato cento volte. Cumuli di corpi accampati, bambini, donne, Sadhu, storpi e lebbrosi, materassi, coperte ed in un angolo un corpo senza vita, coperto di ghirlande di fiori, in attesa di essere portato sulla riva del Gange ed ivi cremato sulle piattaforme dove ardono in continuazione le pire. Scene forti, cariche di umanità e drammaticità agli occhi di chi si accosta per la prima volta, per me rientravano nella normalità della  vita. Nel momento in cui il treno arrivò sul binario, l’aria si riempì di fumo nero ed acre. Lo stridore dei freni si mescolò alle voci dei venditori di thè “ciaiii, ciaiii”. Lentamente la folla si alzò dai giacigli improvvisati e cominciò a prendere posto nei vagoni: qui e là valigie, scatoloni, materassi arrotolati, su tutto galleggiava un bellissimo sitàr. Salii e mi addormentai quasi  subito nella cuccetta di terzo livello (in altezza); era ormai notte ed il pomeriggio seguente avrei raggiunto la cittadina di Raxaul e quindi l’attraversamento di un ponte mi avrebbe condotto alla  frontiera nepalese di Birgunj. Qualcosa però non funzionò. Mi svegliai all’alba in un treno fermo sui binari e completamente vuoto. Tutta quella moltitudine variopinta era di colpo evaporata. “siamo a Raxaul?” chiesi  “no” gli rispose un ferroviere in divisa “Raxaul è 200 km più avanti, ma il treno non va oltre, devi scendere” “ma io ho il biglietto fino a Raxaul” “la line ferroviaria è interrotta da due anni! Capisci… il monsone se la è portata via” “ ma perché mi hanno venduto un biglietto per un posto che non è raggiungibile?” “e chi lo sa, ti hanno fregato, ma non te la prendere…” Fuori dalla stazione numerosi “riksawali” aspettavano clienti da portare sul loro triciclo: “bus per la frontiera ! ” urlavano. Salii sul primo e fui condotto al “bus stand” dove appresi che nessun mezzo diretto era previsto per il Nepal; solo cambiando a Muzzafarpur e quindi compiendo un lungo giro, si arrivava in giornata a Raxaul. Ma ecco entrò in scena Michel, il parigino, spuntando dal nulla: “hei friend ! Forse riusciamo a prendere un mezzo, vieni !”. A quel punto  lo seguii sconcertato avendo in fondo piacere di dividere il tragitto con  un occidentale. Salimmo su di un autobus a dir poco pittoresco: struttura in legno, motore fumante, niente vetri, almeno cento passeggeri. “ dove ci sediamo?” “ roof,  roof ” indicò l’autista,  eggià… il tetto. Viaggiammo ore e dopo si e no 80 km il mezzo si fermò in un villaggetto sperduto tra le verdissime risaie del Bihar. Vidi allora la più spassosa scena degli ultimi tempi. C’era, sotto una tettoia sforacchiata, una bettola che serviva pasti. Come al solito nella parte anteriore era posto il grande forno in argilla refrattaria con grandi fori  in cui infilare i pentoloni, ebbene, tra un foro e l’altro stava seduto il cuoco  e tagliava le cipolle ! Per refrattaria che fosse l’argilla, la temperatura doveva esse altissima, ma costui se ne stava appollaiato con noncuranza intento nel suo lavoro, un po’ nero di fuliggine ma assolutamente a suo agio. Affettava le verdure con una mannaia affilatissima e guardava intorno con occhio burbero. Ramo era il suo nome. “too much” esclamai “too much”, una espressione molto un voga in quegli anni. L’ambiente era veramente… too much. “ chawal ? ” chiese Ramo “ah chawal” risposi scuotendo lievemente il capo a destra ed a sinistra per annuire. Avevo ordinato un piatto di riso ma non volevo assolutamente le verdure che galleggiavano in un intingolo rossastro. Non ci fu modo di far capire al torvo cuoco che volevo solo riso, la cosa suonava come terribile offesa alla di lui abilità culinaria e quindi mi vidi sbattere una mestolata di sugo nel piatto, “questo è il miglior curry della zona “ pareva dire Ramo guardando di traverso ingrugnito. Si rivelò tutto sommato niente male …l’intruglio. Nel frattempo, il problema era sempre quello di trovare un trasporto. Ancora una volta saltò fuori Michel accompagnato da due indiani che avendo una jeep erano disposti a portarci. Ma dove? Per strade polverose e dissestate viaggiammo veloci verso la frontiera… dodici dentro e due appesi fuori. “ c’est toutjour la galere !   commentò il parigino. Finalmente il posto di controllo di Birgunj. Una baracca di legno all’interno della quale due sorridenti militari nepalesi ci controllarono il passaporto e ci fecero pagare 10 dollari per il visto, alla fioca luce di una candela. Ingurgitai un “ciai” prima di crollare sul materasso, sotto la protezione di una zanzariera. L’odore di bucato del lenzuolo fu l’ultima cosa che percepii, inspirai profondamente e cominciai a sognare.

 


 

 

 

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