lunedì 31 maggio 2021

Un piede in tante scarpe

Le prime scalate le feci con un paio di pesanti scarponi Asolo ai piedi, avevano la classica suola di gomma scolpita Vibram. Inizio estate del 1975, sullo Spigolo Boccalatte alla Torre Germana eravamo un gruppetto di cinque o sei, mentre io mi dovevo concentrare sulla punta degli scarponi appoggiandola bene sugli appigli perché non scivolasse, gli altri che avevano delle scarpette leggere mi sembravano salire con meno fatica e più eleganza. Capii che forse era meglio cambiare le calzature. Approfittando della generosità di un amico che aveva smesso di arrampicare, accettai in dono le sue Galibier “RR” (Royal Robbins) usate poche volte. Si trattava di scarpe in pelle con suola tipo Vibram, leggere e ben calzanti. Esteticamente bruttine per il royal blue della tomaia che strideva con il rosso brillante delle stringhe, sulla roccia consentivano una sensibilità maggiore degli scarponi in particolare nell’uso del bordo interno (edging). Le avevo viste, in alcuni film, ai piedi degli scalatori californiani che salivano tra folate di vento patagonico o sulle lisce pareti di Yosemite. Loro, icone dell’arrampicata di allora, le usavano sul FizRoy o El Capitan, io le avrei usate molto ma molto più modestamente sulle montagne di casa nostra. Le utilizzai effettivamente molto in quell’anno quando le scalate si fecero numericamente maggiori fino a consumarne la suola, benché fosse duretta. Nella nuova stagione del 1977 mi trovai una domenica ad arrampicare sulla Via Balzola alla Torre Castello. I miei due soci sfoggiavano fiammanti scarpette di acceso colore arancio a suola liscia e per tutta la salita non fecero altro che magnificarne la leggerezza e la duttilità. Il lunedì decisi dunque di superare le Colonne d’Ercole del Vibram e mi fiondai in un negozio di articoli sportivi sperando di scoprire un nuovo mondo. Mi procurai un paio di Brixia a suola liscia con tomaia in cotone blu e rinforzi per punta e tallone in similpelle rossa. Ansioso di provarle subito, combinai una scalata infrasettimanale alla Rocca Sbarua dove salii la Gervasutti e la Vena di Quarzo. Le nuove scarpette passarono la prova e mi convinsi di aver fatto una buona scelta. Le Brixia si alternarono con le RR fino a che un bel giorno si sfasciarono sotto un pesante acquazzone che le aveva imbevute, ma soprattutto aveva macerato il sottopiede di cartone pressato. Buttai le Brixia, misi definitivamente in pensione le RR e passai a una scarpa più performante ma non sapevo ancora quanto dolorosa! Acquistai la famosa “EB SuperGratton”. Questa scarpa fu davvero innovativa per la scalata di precisione sui piccoli appigli. Era un’evoluzione della Galibier “PA”, ideata da Pierre Allain, scalatore parigino. Costui negli anni ’50 aveva realizzato un prototipo correntemente chiamato varappe (scalata in francese) adatto ai massi di Fontainebleau. Le EB (Emile Bourdonneau) erano diventate nella seconda metà degli anni ’70 le migliori del mercato. Esse avevano anche un altro “pregio”: facevano un male cane poiché la loro forma non seguiva granché l’anatomia del piede, particolarmente il mio. La tomaia era costituita da due strati di tela inframmezzati da uno di gomma per rendere la struttura più rigida e sostenere la caviglia, con il risultato di non fare traspirare il piede. Alla fine degli anni ’70, Asolo confezionò la “Canyon” con la collaborazione tecnica di Yvon Chouinard. La scarpa ebbe un discreto successo soprattutto per la comodità della calzata. Un mio caro amico che la possedeva ci si trovò benissimo e fece molte vie dichiarandosi sempre soddisfatto, sia in aderenza (friction) sia in incastro (jamming), io perseverai con le dolorose EB. E siamo così ai primi anni ’80, periodo importante per l’evoluzione dell’arrampicata e dei suoi attrezzi tecnici. San Marco, conosciuta casa di scarponi, mise in vendita un modello innovativo realizzato da Patrick Berhault, una scarpetta in scamosciato nero con rinforzi gialli, alta sulla caviglia, molto precisa e calzante come un guanto. Mi comprai le “Berhault”. Erano favolose, morbide, fascianti, mi fecero dimenticare le pene delle EB ma, non potendo ovviamente andare sempre tutto bene, si ruppero molto presto. La pelle con cui erano fatte, forse per il tipo di concia, si tagliò dopo un breve uso e nonostante un tentativo di cucitura del calzolaio di fiducia finì per stracciarsi completamente. Fu una delusione, anche per il costo non indifferente. Uscì in quel periodo la Boreal “Fire”. Non era molto fasciante né comoda ma possedeva una suola detta Goma Cocida con un’aderenza così prodigiosa da strabiliare tutti. Non la provai mai di persona ma i giudizi di tanti erano lusinghieri. A me sembrava una scarpaccia dalla forma indefinita e la mia valutazione forse un po’ tranciante non mi convinse mai a spendere una lira per averla. Per andare in Calanques, presso Marsiglia, mi ero fornito di un paio di La Sportiva “Mariacher” (Heinz Mariacher), scarpette viola e gialle a collo alto. Ricordo bene a Morgiou, splendida insenatura mediterranea, una via che iniziava con un lungo muro verticale a piccole tacche, una sequenza piuttosto intensa, dove la tecnica di piedi poteva fare la differenza. Le Mariacher fecero il loro dovere alla grande. La Sportiva stava iniziando quella produzione di alta qualità che continua tutt’oggi. Vorrei citare una bizzarria di quegli anni come La Sportiva “Ambidestra”, targata Manolo, protagonista insieme a Mariacher dell’evoluzione dell’arrampicata. Nata per ovviare al fatto che la suola si consuma generalmente solo nella parte interna della calzatura mentre quella esterna rimane quasi intatta. Era una scarpa da indossare indifferentemente a destra o a sinistra, peccato che il piede umano abbia una forma che non può, per fortuna, essere modificata da un manufatto. Finirono per essere scarpe poco precise sia con la suola nuova sia consumata e messa a piede invertito, il problema non ebbe dunque soluzione. Nel 1982, immortalate nel film Opera Vertical, fecero la loro comparsa le Dolomite “Edlinger” (Patrick Edlinger), si trattava di scarpe un po’ rigide di colore nero e granata, di ottima precisione in particolare su tacche nette ma la punta un po’ grossa era limitante per l’uso nei buchi, non ideali in aderenza pura. A dire il vero, l’autore poteva anche farne a meno come si può vedere in fotografia. Toccò poi alle Valdor “Paragot” (Robert Paragot), le uniche della storia con la suola bianca, non erano malaccio, erano comode, avevano buona aderenza in placca e abbastanza precise su piccoli appoggi, costituirono una meteora e come tale scomparvero filando velocemente. Il 1988 fu l’anno de La Sportiva “Mega” che naturalmente comprai. Era una scarpetta meno flessibile di altre, dalla buona calzata e con una forma del tallone che non mi consentiva però di avere una buona fasciatura, andavano bene ma io prediligevo una scarpa più morbida e per questo motivo comprai le One Sport azzurre e rosa che avevano... un’intersuola in lamierino! Avevo sbagliato tutto, mi sembrava di scalare con gli scarponi, mi facevano un male bestia e non le trovavo per nulla confortevoli, le regalai. Erano state molto pubblicizzate da immagini dell’avvenente C. Destivelle la quale si faceva ritrarre in pose plastiche penzolando da un tetto o mentre superava in foot-hook pronunciati strapiombi. Devo dire che dalle Mariacher in poi solo il modello La Sportiva “Futura” mi soddisfece in toto prima di arrivare a La Sportiva “Mythos”, all’inizio degli anni ’90. Le Futura (nulla a che vedere con le odierne) avevano una trovata curiosa: la suola era doppia nella parte anteriore in modo che risuolandole non occorresse aprire la scarpa e si potesse sostituire solo la suola superiore la quale doveva, gioco forza, essere sottile consumandosi in verità troppo velocemente. Un modello simile alla Mythos lo fece la spagnola Boreal e lo chiamò “Aces” dal disegno dei quattro assi di carte che recava sul fianco, colori nero e verde brillante. Erano belle scarpe e a detta di chi le ebbe, molto comode e versatili. Le Mythos sono a oggi le mie preferite per le lunghe vie di montagna, comode e precise quando sono nuove, tendono, però, ad allargarsi e allungarsi con successive risuolature. Si tratta di una scarpa polivalente per difficoltà medio - alte su ogni tipo di roccia. Dopo oltre vent’ anni è tuttora in produzione e per l’anniversario ne è stato fatto un modello di diverso colore e più compatto nella struttura, limitato numericamente a 1991 esemplari come l’anno della sua uscita, le mie sono il n° 1618. A cavallo del 2000 provai tre scarpe di ottimo livello: La Sportiva “Miura” e “Katana”, FiveTen “Anazasi” (con l’ottima suola Stealth). Queste ultime mi procurarono qualche doloroso problemino sulle pareti del Verdon una delle prime volte che le usai. Ricordo che salii l’ultima lunghezza di una via con le scarpette sfilate dal tallone usandole a mo’ di ciabatta tra imprecazioni di vario genere e subendo lo smacco di farmi lanciare una corda dall’alto. Avrete certamente capito, se già non lo sapevate, che gli scalatori hanno molteplici motivazioni a essere pignoli nella scelta di una scarpa. A conclusione di tutto si può dire che la tendenza attuale è possedere scarpe diverse e specifiche per il terreno che si affronta: boulder, sintetico, vie lunghe in montagna, vie di più tiri in bassa quota, falesia, calcare, granito ecc. Siamo dunque col racconto ai giorni nostri e mi fermo qui. Lungi da me tentare di fare una storia esauriente delle scarpette da scalata né tantomeno stabilire una scala di valori, ho semplicemente cercato di raccontare, attraverso l’esperienza personale, circa quarant’anni di evoluzione tecnica fatta “con i piedi”.



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