Deserto di Atacama -
Cile 1996
"Sato, mi chiamo Sato, sono di Tokyo”
“piacere di conoscerti, viaggi da lungo tempo
?”
”da oltre tre anni”
“mmm…a long ride”
“yes, yes, a very long ride”.
Stavamo nella stessa guest-house
a San Pedro de Atacama, Cile del nord. Ci scambiammo queste poche parole mentre
sistemavo le mie cose in una stanzetta che dava sul cortile dove Sato se ne
stava tranquillamente seduto sotto un tiepido sole. Una sottile sigaretta gli pendeva
dalle labbra, grandi occhiali da sole gli proteggevano gli occhi dagli u.v. dei
3500 metri
di quota a cui ci trovavamo. Entrambe eravamo lì per vedere Atacama con le sue
dune e laghi salati, eravamo lì per passare la Cordigliera delle Ande
e scendere ad Uyuni in Bolivia. Io avevo intrapreso una lunga
cavalcata di circa 4 mesi che dal Cile mi avrebbe portato ai Caraibi seguendo
tutta la Cordigliera. Il mio viaggio appariva
certamente, in confronto a ciò che stava facendo quel giapponese, una
bazzecola, ma per me era già una grande opportunità. Preferiva farsi chiamare col
cognome “il mio nome è Takeshi, ma spesso la gente confonde con Takashi ed
allora… Sato è più facile oltre che breve. A Tokyo ero architetto, lavoravo
come una bestia, facevo forse 10 giorni di vacanza all’anno, avevo la colite, la
gastrite, la tachicardia e l’ansia. Pensai che dovevo fare qualcosa, cambiare
qualcosa.Parlando col mio maestro Zen capii che dovevo dare un taglio netto
alla mia vita. Mi licenziai dallo studio e partii per stare via sei mesi…ora
sono qui. Ho tagliato definitivamente con la fidanzata, e molto probabilmente
anche col Giappone, penso che non ci tornerò a vivere” La tranquillità ed il distacco
con cui mi raccontò queste cose non lasciava dubbi sulla sua determinazione
rispetto a questa scelta di vita. Stava cercando un luogo in cui
vivere diversamente, mettendo a frutto le sue conoscenze ma senza esserne
schiavo. Avevo incontrato, in vari angoli
di questo mondo, viaggiatori a “lunga scadenza”, per così dire, due anni per
l’ingegnere tedesco che partì da casa con due germanie e si apprestava a ritornare in una unica, un
anno e mezzo per la coppia di svizzeri che aveva attraversato l’Africa in
bicicletta, sei mesi erano un tempo comune a molti viaggiatori ma tre anni e più
era veramente tanto. Sato era una specie di macchina
inarrestabile, aveva girato la
Scozia in pieno inverno con un motorino, era caduto ammalato
d’epatite in Egitto, in Costa Rica aveva avuto uno scontro fisico con due
rapinatori e li aveva messi in fuga col nunchaku, due bastoni di circa 50 cm. uniti da una catena,
che diventano, in mano a chi ne conosce l’uso, un’arma temibile e devastante.“il nunchaku lo porto sempre con
me, ogni sera faccio gli esercizi, concentrazione, respirazione, rotazioni,
parate, attacco, fa bene allo spirito ed al fisico” Ebbi modo di assistere a
questi allenamenti per quel breve tratto di viaggio che facemmo insieme. La sera dopo cena, mi mostrò
alcuni disegni e schizzi che aveva fatto viaggiando. Con la matita aveva tracciato
decine di riproduzioni di facciate di palazzi antichi, chiostri di certose
medioevali in Italia, colonne ed archi a Granada, statue indiane di Kajuraho,
rovine Inca, montagne della California, paesaggi un po’ ovunque, in bianco e
nero o a colori. Era una raccolta impressionante
di colpi d’occhio, di ricordi e sensazioni, era il suo modo di raccontare ciò
che aveva visto, di fermarlo per sempre. Lo vidi all’opera sull’altipiano,
mentre, in brevissimo tempo, disegnò i trampolieri rosa che popolavano gli
stagni d’alta quota, le lunghe gambe, i becchi ricurvi, quel loro movimento a
scatti, i colpi di becco secchi e precisi, c’era tutto nel disegno di Sato. A differenza del classico
giapponese in giro per il mondo, Sato raramente scattava foto, non si lasciava
dietro una scia di click, non dormiva con la Nikon, preferiva un altro genere, un genere,
contemplativo, personale, per dirla colloquialmente, ci metteva del suo. Decidemmo in breve che saremmo
andati al “valle de la luna” per vedere il plenilunio, bivaccando nel sacco a
pelo in quella distesa di sabbia e dune spettrali sotto la fredda luce lunare. Ci accompagnò in auto e per pochi
soldi, un tizio di San Pedro con
l’impegno di tornare il giorno seguente a riprenderci. Scaricammo la legna per il fuoco
e l’attrezzatura per cucinare, congedammo l’autista e sistemammo le nostre cose
in un anfratto di solida arenaria dove trovammo resti di passati addiacci.Avevamo appena acceso il fuoco e
la legna aveva iniziato a scoppiettare scaldando intorno la fredda notte
andina, quando avvertimmo il rumore di un motore e subito dopo due fari
lacerarono il buio davanti alla nostra “residenza”, due belgi, lui e lei, si
aggregarono a noi dopo aver accettato l’invito. Intorno al fuoco, l’uomo, da
sempre, ha raccontato le sue storie, così facemmo noi. Le nostre vite scavalcarono le
fiamme e si incrociarono sopra il fuoco, i nostri racconti fluirono
amichevolmente ed a tratti le risate rompevano il profondo silenzio del luogo. La simpatia si era creata tra
noi, corroborata ,ovvio dirlo, dalle due bottiglie di ottimo “ tinto de chile”.
Scattò spontaneo l’applauso, quando Sato estrasse fulmineo dalla giacca una
bottiglietta di acquavite, il classico coniglio dal cilindro, con tutto quel
alcool…un coniglio al “civet”. Magicamente la luna fece la sua
comparsa da dietro le nuvole e la valle si popolò di ombre che in movimento
flessuoso seguivano le creste delle dune e si perdevano là dove non potevamo
vedere per il buio. Jos, il belga, ululò, ma nessuno rise, ognuno era in preda
ai propri pensieri, la malinconia invase il cuore di qualcuno, ma passò presto
e fu cacciata da un ultimo sorso di vino. Il sole del mattino si levò dal
bordo della gran duna che fronteggiava il nostro bivacco.Dapprima con qualche
raggio ma poi pienamente e violentemente investì la nostra spelonca che si
colorò di un rosso caldo e forte. Sull’arenaria rimbalzò il calore e ci preparò
all’uscita dai sacchi a pelo. Avevamo dormito profondamente e
c'eravamo persi l’alba “poco male” pensai e mi rigirai nel giaciglio, tanto
valeva poltrire ancora un po’. Dalla cima della duna di fronte,
Kato con ampi gesti e fischi ci invitò a raggiungerlo. Arrancammo nella sabbia fine, un
metro su e mezzo giù, ma quando raggiungemmo il crinale il fiato lungo per la
corsa mi si mozzò in gola. Davanti a me c’era una distesa di dune, canyon,
valli, montagne a perdita d’occhio. Sfumature ocra con striature gialle
bordavano i fianchi dei rilievi, il cielo già blu con striature bianche bordava
la terra visibile e, lontano sulla destra, una montagna color mattone dominava
sulle altre, un antico vulcano spento. “mon dieu !” disse Corinne
sedendosi nella sabbia e cingendosi le ginocchia con le braccia, le si
inumidirono gli occhi. La bellezza del mondo era lì davanti a noi. Uno spazio
che pareva non avere fine. Girandomi a 360° m' accorsi che dovunque c’era una
grandiosità senza fine, anche nei granelli di sabbia anche nelle piccole cose,
i granelli di sabbia così insignificanti singolarmente presi e così importanti
nel costituire quella massa di montagne multicolori. Passammo due giorni dopo il
nostro ritorno in allegria ed amicizia in giro per bettole e locali di San
Pedro, dove gli stranieri si mescolavano ai cileni in serate di brindisi e
schiamazzi. Partimmo dunque per la Bolivia. La strada sterrata che da San
Pedro saliva al confine ad oltre 4.000 metri, era dominata dalla possente mole
del Licancabur, la sua forma tronco-conica non lasciava dubbi sull’origine
vulcanica. La sua cima ospitava, a quota 5.920, il lago più alto della terra e
con la caratteristica di non gelare mai nonostante la temperatura raggiunga i
25-30 sottozero. Si dice gli antichi abitanti della zona (gli insediamenti
raggiungevano i 4.500
metri) lo usassero come luogo di avvistamento e
controllo. Nuvole scure, durante il nostro
passaggio, coprivano, a tratti, la cima e rendevano il paesaggio cupo e
misterioso, sotto di esse le acque della Laguna Verde lambivano le radici del
vulcano. Questa “Laguna” era un lago circolare le cui acque, di un vivido color
verde dato da minerali di rame in esse disciolto, erano bordate da una curiosa
schiuma biancastra mossa e spinta a riva dalle onde, producendo un effetto
stupefacente non appena il sole riprendeva spazio e cambiava la luminosità del
giorno. Giungemmo dunque ad un avamposto
militare boliviano. Due piccoli soldati infreddoliti intorno alla stufa ci
sorrisero guardando i nostri passaporti: “Il posto di polizia è giù a San Josè,
sul “salar”, lì vi porranno il timbro, per noi potete passare”. “Jovenes
quieren un mate?” disse la mamìta uscendo da una capanna lì a fianco. Era una
donna dall’età incerta, viveva lì cucinando per i soldati e per chi
attraversava. ”Ogni 3 mesi scendo ad Uyuni, mi scaldo un po’, fa così freddo
quassù e poi c’è il soroche, il mal di montagna, a volte è così forte che
neanche le foglie me lo levano”.
Si riferiva alle foglie della coca. Questa pianta sacra alle popolazioni
delle Ande, produce molti benefici a chi vive sull’altipiano: attenua gli
effetti del soroche, diminuisce i morsi della fame e masticata insieme alla
calce, oltre a devastare bocca e denti, produce un po’ di energia, un po’ di
forza per andare avanti anche mangiando poco. Memore di altri viaggi, ne
comprai un sacchetto ed iniziai a masticare (senza calce !) e di lì ad un’ora
il mal di testa si attenuò, le tempie smisero di battere , respirai meglio
nell’aria rarefatta. Non eravamo molto acclimatati per
cui ogni cosa lassù era pesante, bisognava muoversi lentamente e dosare gli
sforzi. Il cielo era a tratti un misto di
latte e carbone a strisce. La jeep cilena ci lasciò ,
insieme ai nostri bagagli, in consegna a quella boliviana che era venuta su da
Uyuni e subito la moglie dell’autista ci preparò dei panini al prosciutto, si
avvicinava mezzogiorno. Non potei mandare giù che due
bocconi, ripresi a masticare la “oja”. Nella jeep, oltre a Sato, a me ed
ai belgi, vi erano due ragazze australiane, una delle quali di origine
italiana. Ci rivelammo essere un gruppo cordiale ed affiatato. L’automezzo procedeva sulla pista
sabbiosa puntando ad alcuni rilievi rocciosi all’orizzonte. Tutto intorno, il paesaggio era
mutato, mentre la parte cilena era per lo più brughiera e pietraia stepposa,
quella boliviana era desertica e secca. Il vento, anche in presenza di
sole, ci obbligava a vestire maglione e giacca a vento. Sostammo presso una sorgente di
acqua calda. Alla sua base si era formata una piscinetta dentro cui solamente
Sato ebbe il coraggio di buttarsi dopo essersi spogliato ad una temperatura
esterna forse sotto zero. Sguazzò come un germano migrante
per un po’ di tempo e quindi uscì ad asciugarsi tremando come una foglia sotto
le folate di vento. Sentii freddo a guardarlo. Gli affioramenti di acque calde
sono piuttosto comuni in aree vulcaniche ed il nostro prossimo obiettivo erano
proprio dei “geyser” a 4.900
metri. Raggiungemmo i rilievi che
vedevamo da circa mezz’ora sullo sfondo. Erano delle enormi rocce completamente
erose e tafonate dall’azione congiunta di vento e sabbia. Gli elementi avevano
formato delle curiose sculture multiformi, le guardai con occhio da scalatore, sarebbe
stato molto bello salirle. Il tempo peggiorò. Il cielo si
fece, da lattiginoso che era, sempre più buio e la jeep avanzava nella sabbia
senza difficoltà. D’improvviso una tempesta di neve con forte vento ci piombò
addosso, i fiocchi cadevano intensamente ed in meno di mezz’ora la neve
raggiunse 30-40 cm. L’automezzo cominciò ad avere
qualche problemuccio…ed anche l’autista il quale cercava di orientarsi nella
foschia totale. Di tanto in tanto apriva il finestrino per vedere meglio
cercando di trovare un riferimento in una roccia, in un avvallamento :”Conosco
bene la zona, vengo quassù da quasi due anni, tutte le settimane” “ No hay problema “, queste parole mi
rincuorarono, non mi sarebbe piaciuto perdermi e dover bivaccare lassù nella
gelida lamiera della Toyota. La moglie era molto meno tranquilla, sorrideva
nonostante dimostrasse un’aria preoccupata. Accadde ciò che doveva. la Toyota
si infossò, le ruote scavarono una profonda buca e sprofondarono nella neve, ci
fermammo sulla pista, in salita. “oh my god, oh my god” ripeteva
l’australiana, visibilmente impaurita. Cercai di smorzare la tensione: “ eh
eh in Australia non nevica, vero?,
vedrai ci leveremo d’impaccio in breve”. L’autista ci passò le pale mentre
continuava a nevicare ma il vento era diminuito e la temperatura accettabile
per il luogo in cui ci trovavamo. Si scavò e si spinse, ognuno per
parte sua, alla fine, tutto sommato facilmente, in una mezz’oretta ne venimmo
fuori, dopo esserci “piantati” un altro paio di volte. “Lassù ai geyser ci sarà almeno
un metro di neve” sentenziò l’autista che apprezzò la collegiale decisione di
lasciar perdere e di scendere alla Laguna Colorada. Fummo però costretti ad
affrontare la prova delle raffiche di vento del colle. Piombammo di colpo, dalla relativa
calma della collina che ci riparava, sotto bordate di vento di una violenza che
non avevo mai visto, la jeep sembrava una barca in un mare in tempesta. Lo schianto del telone che copriva i bagagli
sul tetto ci obbligò a fermarci per rimetterlo; era difficile stare in piedi ed
il pulviscolo nevoso si infilava dappertutto : “ se c’è una cosa che non
sopporto è la neve nel collo !” urlò Sato. Ma poi la tranquillità assoluta
regnò alla Laguna Colorada. Essa giaceva in un grande avvallamento stepposo e
grandi ciuffi erbosi puntinavano qua e là i bordi del cratere vulcanico che
l’acqua aveva riempito in tempi lontani, una brillante spruzzata di neve
copriva il terreno a macchia di leopardo. Le acque del lago si tinsero di
rosso sfumato e la superficie si increspò lievemente sotto una brezza che era
solo lontanamente il ricordo di quella furia là sopra. Più tardi uno sprazzo di luce
bucò il cielo grigio e la laguna si accese. Su di un lato del lago sorgevano
4 o 5 case in pietra e mattoni di fango con tetto in lamiera, stradine fangose
erano i boulevard di questo altipiano. Ci sistemammo per la notte in una
di queste costruzioni, tutti in una stanza. Pensai che l’effetto stalla
avrebbe aumentato la temperatura. Accendemmo la stufa e subito si
diffuse il forte e gradevole odore resinoso della “llarreta” quando brucia. A quelle quote, dove non esistono
alberi, non vi è altro combustibile. E’ una specie di muschio, a vederlo, che
crescendo prende dimensioni notevoli e la resina che contiene la fa bruciare
lentamente. Viene utilizzata soltanto quella
che secca naturalmente, mentre quella verde è lasciata a rinvigorirsi per
essere utilizzata di lì a qualche anno quando giungendo al termine del suo
sviluppo seccherà. A volte vi sono blocchi talmente
grandi e duri che occorre l’esplosivo per staccarli e la mazza per ridurli in
pezzi. Il respiro un po’ difficoltoso
non mi fece dormire molto bene ma comunque potei riposare al caldo e la mia
notte si popolò di pensieri e sensazioni. La via per Uyuni era ancora
lunga. Ci volle un giorno per scendere a San Josè ed un altro per la piana di Uyuni, polverosa e fredda. Percorremmo una tortuosa pista
che costeggiava stagni colorati e popolati da trampolieri rosa a pesca di
gamberetti. Ci accompagnarono grandi cumuli bianchi appesi
ad un cielo blu cobalto, non c’era vento, non c’era neve. Sato ebbe modo di disegnare i
fenicotteri, ognuno a suo modo impresse quelle immagini che distanza di anni
tutti certo ricorderemo. Il secondo giorno, dopo essere
stati scortati da soldati armati all’interno della caserma che fungeva da posto
di frontiera, attraversammo il più grande lago salato del mondo. Il Salar de Uyuni è una distesa
di sale bianco abbacinante come il ghiaccio ed ospita al suo centro un isolotto
roccioso, l’Isla Pescado, dalla forma di pesce appunto. Su di esso crescono
decine di cactus a candelabro e dalla sua cima, in lontananza, nell’aria
tremula, si scorgono rilievi che potrebbero anche essere miraggi. Alla sera, infine, Uyuni con le
sue strade mal illuminate, un minestrone ed un po’ di riso dopo una doccia
bollente. Viaggiai poi con Sato fino alla
bellissima Potosì, a 4.900 metri, forse la
città più alta della terra, e lì ci salutammo dividendoci. Passata una settimana, mentre mi
godevo il tiepido clima di Sucre, la città bianca, lo incontrai tra le colonne
barocche di una chiesa. Aveva comperato pastelli a cera ed io sfoggiavo il mio
nuovo “borsalino” boliviano color grigio cenere, “molto elegante” mi disse
abbracciandomi.