Per il ponte di Giugno le previsioni erano ottime, non restava che fare lo zaino e partire. Ero finalmente riuscito a combinare per il Verdon. Ero contento, mancavo dalla zona, per arrampicarci, da quasi dieci anni. Vi ero stato da non molto ma solo per fare un giro a piedi sul Sentiero Martel e per me non è proprio la stessa cosa sebbene le “gorges” sappiano offrire spettacolo per qualsiasi attività vi si faccia, anche solo guardare questa meraviglia geologica. La prima cosa che colpisce quando si scende in Provenza è il colore della luce, proprio quello che ci stava accompagnando sulle tortuose strade, contornate da coltivazioni di lavanda, che portano a Moustiers-Sainte-Marie. Un bel borgo di circa 600 abitanti, arroccato sulle pendici di alte torri calcaree che è così descritto in un sito web turistico: “Village cramponné au pied de falaise tout en haut du Lac de Sainte Croix, à l’entrée du grand canyon du Verdon”. Arrivati dunque a La Palud, solo 300 abitanti, ma vero cuore pulsante del Verdon, ci installammo nella gîte L’Escalès gestita da Matia, moglie di Patrick Edlinger morto nel 2012 in un banale incidente domestico. Avevamo in programma alcune vie consigliate da guide cartacee e vari siti internet. Il primo giorno si è sempre indecisi se fare qualche tiretto di assaggio o calarsi in doppia e darsi da fare su quel calcare così compatto, definito da M. Bernardi nella sua guida del 1987, il più bello del mondo. Eh già, per arrampicare in questo luogo, occorre spesso fare il contrario di quanto si fa in genere. Prima si scende e poi si risale, facendo bene attenzione a essere in grado di scalare l’itinerario prescelto poiché le vie di fuga non sempre esistono e pur essendo l’ambiente fantastico, non è certo confortevole né onorevole passare una notte là sotto aspettando i soccorsi. A volte la discesa è fino in fondo al canyon, in prossimità del Sentiero Martel, a volte le doppie finiscono su una terrazza alberata, una stretta cengia o in piena parete su due ancoraggi uniti da una catena (ad esempio Rêve de fer o L’ange en décomposition). Le terrazze portano nomi come Jardin des Ecureuils, Jardin de la Marcellin, Jardin des suisses (i fratelli Remy), Jardin de bananes e visti dal basso appaiono come grovigli di alberi avvinghiati alle pareti. La mia esperienza in quest’angolo di Francia, si limita a una quindicina di vie per lo più le grandi “classiche”, ma per chi è in grado di scalare a livelli molto alti, le forti difficoltà unite alla grande esposizione nel vuoto formano un cocktail micidiale. A ogni buon conto certe vertiginose calate in corda doppia (come quelle di Luna Bong, che fecero dire a Marco Troussier, quando le fece su chiodi e cordini: “J'étais vert“) lasciano sempre un qualcosa dentro che non svanisce subito anche con la decennale abitudine a certe manovre. Un capitolo a parte lo valgono i nomi strampalati delle vie. Oggi siamo piuttosto abituati a bizzarrie ma fino a tutti gli anni ‘70 si era legati alla compostezza di: diedro grigio, fessura gialla, diedro rosso, placche striate, strapiombo nero oppure al nome degli apritori o quello di un amico, magari scomparso. In Verdon comparvero nomi veramente divertenti che possiamo per gioco catalogare in: parole composte o neologismi, Troglobule (trop+globules), Dingomaniaque, Durendalle e Footcroute (football+chocroute, dedicata agli alsaziani), Caca Boudin, Spitofage Pervers; fanta-horror-thriller, Golem, Cthuluh, Necronomicon, Massacre à la tronçonneuse, Necropolis, Le toboggan de la mort; a rima baciata, La vache qui tache, Manu ribdu, Ticket pour un tacquet, La dalle du clou qui rend fou; botta e risposta, La Demande, L’Offre, Toujoursjamè, Toujourplusprés, Polpot, Polpet, Mort à Venice, Mort subite, Miss canyon, Miss tourbillon; deciso e perentorio, Take or leave it, Pas de panique, Alerte au gaz, Surveiller et punir, Sérieux s’abstenir; paradisiaci, La douce sublimation, Patience dans l’azur, Troisiéme ciel, Èperon sublime; acronimi, ORNI (Object-Rampant-Non-Identifié), TNT; nomi di animali, Ula (una cagnetta tedesca), Pichenibule (una pecora provenzale), Arabe dément (un gatto). Giacchè, in un celebre articolo su una rivista specializzata, gli scalatori che si cimentarono per primi su quelle vertiginose rocce furono definiti “un groupe des fous mèridionaux”, non potevano allora mancare i nomi dedicati alla follia come Au delà du délire, Delirium très mince, Le fou d’artifice, Le moroir du fou. I nomi hanno quasi tutti un doppio senso e spesso si riferiscono a situazioni createsi durante l’apertura. Mi sento di consigliare la lettura di Quei pazzi del Verdon di B. Vaucher, racconto di una “banda d’illuminati”, un gruppo di amici con tutte le loro avventure verticali. Un libro che oltre a contenere alcuni capitoli esilaranti, è importante per capire un’epopea che riguardò tutta l’Europa posando le vere e proprie basi dell’arrampicata sportiva. Tornando alla nostra permanenza, decidemmo di “buttarci” su Saut d’homme sperando di non essere troppo coerenti con il nome. Questa via consta di quattro tiri per una lunghezza totale di circa 150 metri e segue la linea di un grande diedro-fessura in roccia gialla e grigia. Si tratta di una scalata molto ripetuta e questo poteva presagire la presenza di roccia lucidata dai numerosi passaggi, ma in ogni caso avevamo preso la decisione. La prima calata fu senza difficoltà, ma la seconda naturalmente ci offrì un bell’incastro di nodo per la delizia di dover risalire la corda con manovre varie e poco piacevoli. Fortuna volle che una cordata inglese che scendeva dopo di noi ci facesse scorrere il nodo oltre il punto d’incastro e fummo salvi potendo recuperare le corde e arrivare alla piccola terrazza alberata, sospesa sulla parete, da dove ebbe inizio la scalata. Fu subito fessura da tirare con forza, dülfer e incastro, ehmmm…la chiodatura? Pareva buona e i punti di protezione non troppo distanziati, sempre comunque “stile Verdon”. Intanto un grosso grifone ci teneva compagnia volando sopra di noi e sfruttava silenziosamente le correnti ascensionali per controllare il canyon alla ricerca di cibo. Arrivai dunque al terzo tiro che dalla sosta appariva come una lunga e giallastra fessura, “Mi sembra un affare rognoso” dichiarai sorridendo e cercando di prenderla allegramente, m’impegnai deciso utilizzando anche il famoso “renfougne”, incastro di una parte del corpo che striscia un po’ dentro la spaccatura mentre l’altra parte sta fuori in cerca di appigli buoni per piedi e mani. Dopo un discreto sforzo venni a capo del tiro e mi ritrovai, prima della sosta, ad aggirare un robusto ginepro fenicio abbarbicato nella fessura, uno dei tanti di queste pareti, il più famoso dei quali è “l’arbre de Coriolis” sulla via Mangoustine, addirittura millenario. Alla fine della scalata, immerso nei bossi del pianoro sommitale, liberatomi di scarpette imbrago e corda, commentai che era stato proprio bello lasciarsi attrarre dall’ambiente verticale del canyon. I giorni successivi ci regalarono panorami da cartolina sul Lago di Sainte Croix, vedute mozzafiato delle gole mentre percorrevamo brevi tragitti in auto per raggiungere i punti di partenza. Una panoramica strada ci condusse al cosiddetto Chalet de la Maline. Anche se l’eleganza della parola francese evoca per noi costruzioni montane di pregio, si tratta in realtà di un rifugio del CAF, da cui si può scendere a piedi nel canyon. Il nostro obiettivo era scalare la via Free Tibet. Seguendo la descrizione scaricata in rete, raggiungemmo l’attacco. Un tiro obliquo ci portò alla prima sosta, la gradazione ci parve severa. Il secondo tiro coincideva solo parzialmente con quanto riportato sul foglio, mancava un breve traverso verso destra e quindi una sosta su un grande ginepro secco che non poteva passare inosservato, pensammo a una inesattezza. Il terzo tiro era un traverso a destra e combaciava con la relazione, ma le difficoltà sembravano essere più alte di quelle dichiarate, pensammo di essere scarsi. Una cordata che incautamente ci seguiva fidandosi forse della nostra convinzione, abbandonò e scese in doppia, pensammo che stesse forse facendo la cosa giusta. Il quarto tiro partiva obliquo a sinistra mentre la relazione parlava di andare a destra, commentammo come certuni non conoscano la differenza tra destra e sinistra, passi impegnativi mi portarono alla sosta. Il quinto tiro saliva su per un pilastro “supergaz” di cui non vi era menzione, cominciammo ad avere dei dubbi. Fummo infine su una grande cengia al termine della via. Il rientro era indicato da ometti in pietra verso sinistra, la relazione parlava di andare a destra, smettemmo di farci domande e ci incamminammo verso la Maline. Nessuno degli scalatori che incontrammo nella serata fu in grado di delucidarci e solo al nostro ritorno a casa, internet chiarì che avevamo fatto un’altra via, aperta da poco e più dura del nostro obiettivo iniziale. In ogni caso ce l’eravamo cavata con un impegno maggiore, con qualche tratto al limite del volo, un po’ di timore ma senza pericoli. Così passarono sei giorni scalando, chiacchierando davanti a una birra a Lou Cafetie, ascoltando le spassose litanie del proprietario di Le Tilleul-crêperie tibétaine, mangiando le insalatone nel giardino di Joe Le Snacky, respirando il profumo dei sacchettini di erbe provenzali e portandoci a casa, insieme alle belle sensazioni, i barattoli di miele alla lavanda.
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