lunedì 31 maggio 2021

Il Cieco, lo Zoppo e lo Sbadato

Come una cordata assortita affrontò una giornata di dolomia

Autunno in bassa Val d’Aosta, è una bella giornata di sole e sono con Riccardo e Wolfango. Mentre mi accingo a salire il primo tiro di una via esclamo ”Abbiamo riformato il trio dello Spigolo del Velo” ed Riccardo di rimando ”Il cieco, lo zoppo e lo sbadato”. In una calda giornata estiva dell'anno precedente eravamo partiti sull’ammiraglia di Wolf alla volta di San Martino di Castrozza per una tre giorni alle Pale, obiettivo scalare il famosissimo Spigolo del Velo alla Cima della Madonna e qualcos'altro in zona. Da tempo volevo salire la meraviglia verticale del Velo, conosciuta come una delle più belle scalate dolomitiche, roccia incredibilmente solida e quasi intatta nonostante le migliaia di ripetizioni dal 1920, anno della sua apertura. Ne avevo parlato con Lucia e Giorgio, i pistoiesi con cui avevo condiviso molte scalate, tutte le estati erano in zona col loro gruppo di running ma la cosa non era andata a buon fine. Avevo interpellato allora Riccardo pur sapendo che non lo ispiravano né la roccia né la chiodatura dolomitica (quando c’era). Senza grande entusiasmo si disse disponibile, presumo più per amicizia che per vero interesse. Durante i preparativi mi giunse una telefonata dello stesso che mi comunicava la richiesta di aggregarsi avanzata da Wolf, nonostante fosse un po' claudicante per un recente problema al ginocchio. Erre mi disse che non gli piacevano le cordate a tre, che la via era abbastanza lunga e che avremmo impiegato troppo tempo, ma comunque lasciava a me la patata bollente della decisione. Nonostante Riccardo avesse ragione, mi dispiaceva dire di no a Wolf, sarebbe stato un po’ come imputargli il fatto di rallentare la cordata (non sia mai!) e allora dissi di sì. Ci mettemmo in autostrada e via verso le Pale di San Martino. Giungemmo dunque a Malga Zivertaghe dove si lascia l’auto per salire al rifugio. In previsione di più di una giornata di scalate, mi ero portato due paia di scarpe, un paio più comode per i quattrocento metri dello Spigolo e un altro più strette ma anche più precise per la seconda salita. Preparammo gli zaini, scarpette, imbrago, moschettoni, cordini, borraccia, sapete come va in questi casi, tutto diventa automatico, forse troppo. Ci sistemammo al rifugio e dopo una buona cena andammo a dormire presto. Per l’indomani le previsioni meteo erano buone e lo spirito alto, recita la retorica in questi casi. Al mattino, sotto un cielo terso, ci attendeva un avvicinamento di trenta minuti, il rifugio è infatti quasi piantato nella radice della Cima e raggiungere la partenza dello Spigolo è di fatto un gioco da ragazzi. Con un breve tratto di ferrata si giunge alla grossa clessidra rocciosa indicata come partenza della via, lì ci si imbraga e ci si lega alla corda. Perfetto, vi giunsi per primo, tirai fuori la corda dallo zaino, misi l’imbragatura e cercai le scarpette per calzarle ma mi accorsi che avevo due sinistre. “Porca p... possiedo due paia di Mythos e forse perché mal riposte nell’armadio ho preso due scarpe uguali” commentai borbottando. Affranto, appoggiai la testa alla roccia, avevo fatto quattrocentocinquanta chilometri per quella via e adesso ero lì sconfortato e arrabbiato. Intanto mi raggiunse Riccardo che vedendomi in quello stato ”Stai male?” mi chiese “No, ho due scarpe sinistre, sono proprio uno scemo, vabbè andate su voi io mi farò un giro”. A questo punto trionfò un senso di amicizia solidale, sapendo quanto ci tenessi a fare la via, mi fu proposto di scendere alla macchina, di prendere le altre scarpe (ero certo che fossero una destra e una sinistra) e di risalire al rifugio, la via l’avremmo fatta il giorno seguente. Ed eccoci al giorno seguente, all’attacco infilai una Mythos nel piede sinistro (non si rinuncia facilmente alla comodità) e una Katana nel destro sperando che non mi facesse male poiché un po’ stretta. Il cielo non era più sgombro come la mattinata precedente, striature grigie si allungavano sull’orizzonte, l’azzurro era un po’ slavato, “Sperùma bin” dissi attaccando il pilastrino iniziale. I tiri scorrevano, la roccia era in effetti molto bella, la chiodatura scarsa ma le difficoltà abbordabili permettevano di salire con discreta sicurezza e così tiro dopo tiro ci innalzammo, io continuai a condurre lodando la qualità della roccia, l’eleganza della scalata ma lamentandomi dei chiodi arrugginiti e delle soste mal sicure secondo i miei standard che non sono certo quelli dolomitici. Eravamo già molto in alto e la progressione era regolare ma non delle più veloci, la temperatura era fresca tanto da richiedere maglione e kway per godere di un certo confort. A un certo punto Wolf espresse il desiderio di passare a condurre qualche lunghezza ma Riccardo fu perentorio: “No no, continua lui che ormai ha preso il giro, non rallentiamo” il silenzio che seguì fu molto chiaro nel significato, continuai io come capocordata. A due tiri dalla vetta iniziarono a cadere gocce di pioggia miste a palline di ghiaccio ma sulla piatta terrazza, dove hanno fine le difficoltà, comparve per un attimo un timido sole. In cima dopo la “doverosa” stretta di mano, ci avviammo per una esigua cresta a prendere le calate in doppia sul versante opposto. Il piccolo sole cedette il posto alla nebbia che in breve si impossessò di tutta la montagna impedendo la visuale oltre i tre, quattro metri e fu la nebbia stessa la protagonista del prosieguo. Le calate avvenivano lungo il camino Winkler, una spaccatura di circa cinquanta metri salita nel 1886 dallo straordinario scalatore tedesco senza alcuna protezione, incastrandosi dentro e con gli scarponi chiodati. Oggi è gradata di quarto, figurarsi alla fine dell’ottocento che cosa significasse. Ma torniamo alla nostra discesa, due doppie ci depositarono su una cengia di sfasciumi, a tratti scendeva una pioggerellina fine, bisognava porre estrema attenzione nel muoversi su quel terreno infido e per giunta immerso nella nebbia. Giungemmo così alla doppia che porta al colletto da cui s’imbocca il canalone finale per raggiungere i ghiaioni basali e di lì il rifugio. Scese prima Riccardo, che in quella giornata era un po’ innervosito da un problema a un occhio e rispondeva seccamente alle domande; incolpevolmente fece una doppia obliqua per raggiungere direttamente il colletto ma capì che poi sarebbe stato difficile recuperare le corde per cui consigliò di fare una doppia verticale e poi risalire al luogo dove era arrivato lui con le corde. Fu dunque il turno di Wolf che lamentandosi per il fatto che in basso c’era della neve residua, iniziò anche lui a scendere con una doppia obliqua facendo imbufalire non poco Riccardo e venendosi a trovare in una situazione complicata con le corde che tiravano e impedivano lo scorrimento del discensore “ Ma cosa c... fai? ” lo apostrofò Riccardo “Eh…non so” “ Ma come non sai, come sei messo?” “Eh come sono messo…né carne e né pesce”. “ Nè carne né pesce? Ma cosa vuol dire? Wolfango non ti sopporto ” urlò Riccardo “Sei pedante e noioso oltre che testardo”. Incastrato sotto una sporgenza rocciosa per ripararmi dalla pioggia, legato ai chiodi della sosta, dall'alto assistei allo spassoso siparietto e non seppi proprio trattenere una risata sincera. La situazione era assurda e divertente al tempo stesso. Alla fine Wolf in qualche modo raggiunse la postazione di Riccardo il quale sembrava fumare dall’incazzatura. Dalla nicchia in cui  ero rintanato evitai di parlare e scesi in doppia finendo con i piedi nel nevaio per poi camminare fino ai due litiganti che nel frattempo continuavano la discussione. “Va bene Wolfango scusami” “ Non ti preoccupare, siamo amici da lungo tempo e poi ci sono abituato fin da bambino quando mia madre mi sgridava, facevo finta di niente” “ Ma cosa c’entra tua madre adesso? Vuoi dire che fai finta di niente quando ti dico qualcosa? Vabbè lasciamo perdere e leviamoci di qua”. Il terreno era sempre piuttosto insidioso e la nebbia non si diradava, procedevo in discesa cercando gli ancoraggi delle doppie e di tanto in tanto udivo un richiamo dei soci che nonostante avessi una giacca gialla non mi vedevano. Il problema di Riccardo all’occhio si acuiva con la poca visibilità “Renato dove sei passato?” “ Sono sceso dritto ma non saprei come spiegarti” “ Ah beh, grazie dell’aiuto” “ No, non volevo dire…” decisi di lasciar perdere per non aumentare il tasso di nervosismo del gruppo. Dopo diverse doppie e tratti percorsi a piedi, numerosi chiodi e cordini ci indicarono un grosso ancoraggio sul bordo di un salto verticale e presumibilmente piuttosto alto, guardando in basso si vedeva infatti solo uno strato lattiginoso qualche metro sotto noi. Riccardo scese usando una sola corda, scomparendo nella nebbia per trenta metri “Non vedo la sosta e sono in piena parete verticale, adesso mi sistemo sopra uno spuntone ma non sono messo bene”. La situazione era un po’ complessa, non aveva visto l’ancoraggio successivo o questo non era a trenta metri? L’unica soluzione logica era legare le due corde e scendere per sessanta metri per avere a disposizione una calata lunga, una sosta da qualche parte l’avremmo ben trovata. Il difficile fu a quel punto vincere la caparbietà di Wolf assolutamente convinto com’era che Riccardo fosse in errore dato che tutte le calate precedenti erano state di trenta metri “Scendi da trenta vedrai che la trovi, è Riccardo che l’ha ciccata” mi disse “Ma se scendiamo da sessanta in ogni caso o la troviamo a trenta o tutt'al più scendo finchè ho corda e una sosta ci dovrà pur essere, con la calata lunga siamo sicuri” replicai. A me il ragionamento sembrava filasse ma pareva non convincere completamente Wolf che solo dopo un lungo e riflessivo silenzio cedette “Va bene, lega le due corde”. Cominciai a scendere e raggiunsi Riccardo che con un sorriso stiracchiato mi guardò standosene appollaiato su una specie di prua che fuoriusciva dalla parete, era al sicuro ma comodo non di certo. Decisi che non era dunque il caso di condividere quel trespolo, gli passai le corde perché le tenesse vicine per poi usarle quando fosse stato il suo turno e continuai a calare nella nebbia più fitta. A un tratto sentii però qualcosa di strano sotto la scarponcino destro, non vi badai più di tanto filando lungo le corde verso il basso. A oltre cinquanta metri di discesa atterrai su una terrazza abbastanza ampia, scrutai in giro ma non vidi chiodi o cordini, nulla, la nebbia continuava a essere spessa, tutt'intorno un velo grigiastro mi avvolgeva, improvvisamente ci fu uno squarcio brevissimo, “Porco boia” esclamai, per un attimo vidi che i ghiaioni erano solo cinque metri sotto di me, eravamo arrivati, intravidi nella pietraia il solco del sentiero prima che tutto si richiudesse. In breve fui raggiunto e ci incamminammo. Eravamo stati in ballo per circa undici ore, eravamo stati lenti ma in fondo non ci importava, lo spigolo era fatto. Mentre camminavo, mi accorsi che una scarpa aveva la suola scollata, ecco cos’era quella sensazione strana, continuai caracollando sulle ghiaie, “Domani per scendere ti presto il nastro delle dita, potrai avvolgere la scarpa, ma non consumarne troppo” sentenziò Riccardo in tono scherzoso. La signora del rifugio ci disse che era un po’ in ansia per noi sapendo che la discesa era complessa con la nebbia soprattutto per chi non la conosce, “In qualche modo ce la caviamo sempre” esclamò qualcuno di noi facendo emergere dalla stanchezza fisica e mentale un po’ di gagliardo spirito di tempi andati. Poi furono una minestra calda, una fetta di torta e brindisi con una bottiglia di vino. Attraverso la finestra si vedevano le luci nella valle, il buio abbracciò le montagne, era ora di andare. Buonanotte.


 

 

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