domenica 30 maggio 2021

Ciudad Perdida

 

Agosto 1994  - S. Marta -  Colombia

 Miguel

“Soy  Miguel, guia del Parque Tayrona y Ciudad Perdida, salimos mañana tempranito, a las cuatro.” Ed eccoci all’alba su un fuoristrada, io, Guly e tre di Reggio Emilia conosciuti in città, Boghy,Luca e Franz. Stiamo salendo alle pendici della Sierra de Santa Marta da dove, lasciato l’automezzo, proseguiremo nella jungla per alcuni giorni fino a raggiungere Ciudad Perdida, un nome che mi affascinò fin da quando lo lessi per la prima volta su National Geografic. Scoperta da una ventina di anni, dopo essere rimasta  celata nella fitta foresta per secoli evadendo tutti gli sforzi di vari esploratori che negli anni avevano provato a cercarla sulle tracce della leggenda che ne parlava. Terreni impervio, tribù locali non proprio amichevoli, situazione di generale pericolo della Colombia avevano sempre tenuto lontano le frotte di turisti che affollano le rovine archeologiche di centro e sud  america. Quello era il posto da vedere!. Ero giunto con Guly viaggiando da Bogotà, via terra, sino alla costa caraibica, sino a Cartagena, uno splendido gioiello di architettura coloniale. Attraversando quello stupendo paese che è la Colombia, avevamo incontrato solamente visi sorridenti, strette di mano, amicizia e “vallenato”, la musica della “tierra de l’hamaca” come canta Carlos Vives. La salita è molto ripida anche per il fuoristrada, arriviamo ad una tettoia in quello che è l’ultimo abitato, sei case con un bar e biliardo. “voi siete allenati a camminare?” mi chiede Franz “ beh, si abbastanza, io sono alpinista, lui gioca a calcio e fiato ne ha”   “ anche noi giochiamo a calcio” “io niente” bofonchia Boghy, un simpatico e corpulento ragazzo “ mo’ c’iò qua io un integratore…”. Miguel ci sprona a partire, egli indossa un paio di pantaloni corti, tipo bermuda, canotta, un lungo machete appeso alla cintola, ha un bel fisico, snello, muscoli segnati, un colore di pelle tipico per i creoli “ anche noi come fisico siamo mica male, eheheh” dice Franz ridendo ed esibendo il bicipite, “ m’asboro me dei muscoli” commenta Boghy. Tutti in fila dietro il cavallo carico di provviste e per ultimi Chipuco e Ramòn, i portatori. Costeggiamo dapprima la riva di un torrentello, per un sentiero in piano, fangoso e viscido per la pioggia recente. Nella selva i temporali sono quotidiani, sono vita per gli alberi, accumulano umidità nell’aria e rilasciandola poco a poco danno linfa ad una vegetazione che ci copre come un ombrello. Dopo un paio di ore raggiungiamo la capanna di un contadino, Miguel si apparta a contrattare della frutta e della verdura, “chiedigli se ha della grappa, Miguel!” e si ride. Il sentiero comincia adesso a salire per ripidi tornanti di poltiglia viscida in cui il cavallo sale a fatica e noi dietro arranchiamo nel fango argilloso, dal colore dell’ocra scura, i suoi zoccoli si piantano e si sollevano con un risucchio curioso nell’inconsistente terreno. Dritto, il sentiero è sempre più dritto, tutt’intorno la jungla ci avvolge, siamo nell’ombelico del mondo, lo so, qui vivono “i custodi della terra” come amano definirsi coloro che noi impropriamente chiamiamo indios. Qui si sente la forza del mondo, l’energia che la terra effonde. Ogni albero parte dalla terra e raggiunge il cielo, l’incontro dei mondi, l’equilibrio; a queste cose penso mentre rivoli di sudore mi colono lungo la schiena e sulla fronte. “Miguel hay tigre por aquì?” “ si, amigo, hay”. El tigre è il giaguaro, così lo chiamano qui, ne vedremo poi le orme presso una pozza d’acqua “ pero tiene miedo de l’hombre,  ha paura non si avvicina, amico, qualche volta capita di sentirlo, di notte o all’alba ed allora tutti gli uccelli di colpo smettono di cantare, la natura tace, sta cantando il re”. Più del cavallo, arranca Boghy, è pesante, ansima e sbuffa, suda come in un bagno turco, rosso in volto si ferma sovente e si lamenta “ fino a ieri stavo in un cinque stelle all-inclusive, donne, long drink e via dicendo e adesso… lasiamo mò perder”. In tutta sincerità nutro dei dubbi sulla sua tenuta, se dopo tre ore è già scoppiato figuriamoci sei giorni di questo passo. Alla pausa mensa presso una rudimentale capanna abbandonata dai contadini ma non di certo da mosche, tafani e zanzaroni che si apprestano a banchettare col nostro sangue, non saranno il Conte Vlad ma per succhiare, succhiano alla grande, è cominciata la battaglia e non si fanno prigionieri, non darò loro tanto facilmente i miei globuli rossi. Finalmente un lieve vento spezza l’oppressione del caldo e gli insetti ci danno tregua, ma sarà certo una tregua di breve durata e armata da ambo le parti. Chipuco prepara le arepas, le ciambelle di semola e formaggio cotte in pentola con un filo di olio, poi caffè nero e forte, il migliore. L’aroma si disperde per il campo, sa di casa, sa di bar della mia città, sa di vita, sa di allegria, sa di caraibi. L’allegria pervade il gruppo, Boghy gusta il cibo e imperversa “ al 5 stelle mica ti danno ‘sta roba qui, ti danno la solita merda dal gusto neutro, merda internazionale” “ mangia Boghy che poi ci pensano i tafani a sgrassarti” ride sgangherato Franz. Abbandoniamo il cavallo, ritornerà alla stalla da solo, laggiù nel paese del bar col biliardo. Il sentiero non esiste praticamente più, man mano che ci si addentra, per i quadrupedi della sua stazza non c’è posto. Dividiamo il carico negli zaini, che diventano così decisamente pesanti, e questo soltanto dopo una lunga discussione coi portatori i quali non vogliono accettare il fatto che anche noi portiamo parte del peso, sembra loro di venire meno ad un dovere, è gente generosa, gioviale, robusta, siamo presto amici. Si sale costeggiando il torrente che si fa sempre più impetuoso, siamo divisi in due gruppetti, io, Guly e Luca precediamo gli altri di qualche  centinaio di metri e ci perdiamo di vista nell’intricata boscaglia, Miguel ci ha detto di non abbandonare mai la riva dove un sentierino appena accennato sale gradualmente. Dopo poco, la vegetazione spontanea lascia il posto ad un campo di banani molto alti e carichi di frutti, ci si muove al suo interno cercando un passaggio ma non è facile, le piante sono molto vicine le une alle altre. Finalmente una radura ci permette di vedere qualcosa e lì piantato davanti a noi un “guardiano della terra” ci scruta. Veste completamente di bianco, un paio di pantaloni logori e sporchi, una casacca rattoppata, lunghi capelli neri ed un grosso machete in mano. Il nostro gruppetto di avanguardie frena, è un uomo piuttosto imponente, in genere i nativi sono piccoli e ciò ci stupisce, “buenos dias compadre” esordisco “buenos” mi risponde secco “avete medicine per il mal di denti?” in effetti vedo che un grosso ascesso gli gonfia la mascella destra e gli faccio cenno che gli altri che stanno arrivando forse qualcosa possono avere. Quando giunge Miguel si scambiano una stretta di mano e qualche parola, possiamo fare poco per lui, qualche aspirina, avrebbe forse bisogno di antibiotici ma soprattutto di un medico che è però lontano e probabilmente non ha i soldi per pagare. Passeremo la notte in un abitato di tre case sul fianco della montagna, ci vive una famiglia di agricoltori meticci, un bambinetto ci corre incontro, la signora ci prepara una bevanda ed il nonno prende a raccontarci le sue avventure di caccia.” A volte prendo il fucile e parto  nella jungla facendo bene attenzione alle tracce che vedo, seguo i conigli selvatici ma non vorrei mai incontrare il giaguaro, lui se ne sta tranquillo rintanato all’ombra durante il giorno, magari mi vede ma sa che sono una preda difficile, io so che lui ha un brutto carattere e lo lascio stare, così andiamo d’accordo! Ultimamente è stato visto là su quel versante opposto a noi e allora io vado da questa parte così forse non ci incontreremo e ognuno mangerà i propri conigli” Mi sembra un saggio modo di agire in accordo con la natura e le sue componenti e poi il giaguaro è un dio nelle leggende, meglio lasciarlo stare.



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